Giovanni
FONTANA
SCRITTURE
PERFORMATIVE E NOMADISMO PO(I)ETICO
Credo che sia piuttosto importante, in questi
tempi di revanscismo della subcultura mediatica, soffermarsi ancora
sull’essenza della poesia performativa (poesia d’azione,
poesia sonora, poesia-teatro, public poems, ecc.) o sulla legittimità
dell’uso del termine “poesia” per tutte le forme collegate,
direttamente o indirettamente, sia alla dimensione della performance,
sia al più generale concetto di intermedialità creativa
(poesia visiva, poesia concreta, videopoesia, computer poetry, ecc.). A quest’ultimo proposito conviene richiamarsi
ancora una volta all’etimologia del termine “poesia”
che rimanda al greco poiesis, nome d’azione di poieo:
“creo”. Stesso percorso etimologico per il termine “poeta”,
da poietes, nome d’agente che ci riporta al medesimo verbo.
Il poeta è, pertanto, colui che crea, che fa, che plasma, che
agisce e organizza sui più diversi fronti della creatività,
con tutti i materiali che ritenga opportuno utilizzare, dentro e fuori
dalla pagina. In questo senso ogni supporto è legittimo, come
sono legittimi ogni spazio e ogni situazione. Tale condizione ci riconduce
addirittura alla tradizione alchemica, secondo la quale a procedere
verso la “Grande Opera” era proprio la figura composita
dell’alchimista-poeta. Va ricordato, infatti, che l’alchimista
era in realtà chiamato poeta. Olimpiodoro, per esempio, alchimista
e filosofo, era designato come poietes, vale a dire operator,
corrispondente alla parola poiesis che si riferisce alla “Grande Opera”. Arturo Schwarz sottolinea
come poietes significhi nello stesso tempo operator e “poeta”. I
termini derivati dalla stessa radice possiedono anch’essi un duplice
significato: poiesis, ‘creazione’ e ‘poesia’, poiema ‘qualcosa che è
fatto’ e ‘poema’. Ricorda ancora Schwarz che la duplicità
del senso si ritrova anche nel sanscrito, dove kartr, corrispondente
a operator e kavi, poeta, hanno la stessa radice
[i]
. La “Grande Opera” designata come poiesis
è, quindi, contemporaneamente teoria e applicazione, conoscenza
e sperimentazione, poesia e azione. Oggi sembra che la linea di demarcazione che
divide coloro che praticano la scrittura tradizionale, rigorosamente
entro i confini della pagina, e coloro che agiscono creativamente entro
un quadro di riferimento spazio-temporale, o più generalmente
multidimensionale, non ammetta osmosi, tranne piccolissimi slittamenti
da un versante verso l’altro e viceversa. Il pesante clima di
ritorno all’ordine che si respira affannosamente da qualche tempo
(legato principalmente a ragioni di politica di mercato, ma dovuto anche
ad un diffuso abbassamento dei livelli culturali sotto l’influsso
negativo dei mass-media) e l’insistenza mediatica su modi e forme
scadenti di comunicazione hanno favorito l’interesse per tutto
ciò che è facilmente consumabile e digeribile, tanto che
il patrimonio della coscienza critica collettiva ne è risultato
fortemente deteriorato. Ormai si sa che tutto ciò che ubbidisce
ai canoni del facile consumo rientra nella sfera della convenzionalità
con il beneplacido delle istituzioni, mentre il resto è bollato
come qualcosa da rifiutare o da guardare con sospetto, in quanto velleitario,
irragionavole, sovversivo, anarcoide, inutile, incomprensibile e via
dicendo ! Cosicché i poeti, sui due opposti versanti, continuano
a fare il loro lavoro rimarcando graduali aumenti delle distanze tra
gli schieramenti. Ma da questa situazione mi sembra che, a fronte
della staticità delle scritture convenzionali, emergano, con
sempre maggiore chiarezza, i caratteri ribelli della poesia performativa
legati, principalmente, alle frizioni generate da una significativa
serie di rapporti dinamici. Il lavoro del performer, infatti, è
costruito pazientemente sulle oscillazioni generate dall’attivazione
del rapporto interno/esterno, nel senso che si pone come momento dialettico
tra spiritus e corpus, tra soggetto e oggetto, tra immaginazione
e realtà, tra pensiero e azione, tra privato e pubblico, tra
locale e globale, tra particolare e totale, tra il progetto e la sua
realizzazione. Il poeta in-forma operando una sintesi
di opposti, cosicché la sua poesia appare doppia, rinviando
ancora una volta ad un inquadramento che direi alchemico. Nella tradizione
ermetica, infatti, il mondo è sintesi di contrari; Paracelso,
mago e alchimista, afferma che ogni cosa è doppia.
[ii]
E il frutto della “coniunctio oppositorum”,
il “filius philosophorum”, è il Rebis, l’androgino
immortale, l’essere doppio. Piedi a terra e braccia levate in
alto, verso il cielo, l’androgino, l’orante archetipico,
l’Y presente in tutti gli alfabeti conosciuti, partecipa del principio
uranico e di quello ctonio. Ma già Aristotele asseriva
che “un carattere specifico della sostanza, benché identica
e numericamente una, è di essere costituita in modo tale da accogliere
i contrari mediante un processo di autotrasformazione.” All’ingegno del poeta è
demandato il gioco della sincronizzazione dei processi di congiunzione
(performance) affinché possano essere ottenuti livelli ottimali
di formalizzazione. Il poeta, alle prese con la trasmutazione della
materia alfabetica e verbale, come l’alchimista, si cimenta nella
ricerca delle possibili facce della sostanza, per perseguire il fine
ultimo della nascita dell’Y, pietra filosofale, aurea apprehensio,
axis mundi. Il poeta trasforma così parole e cose, come
il contadino tramuta l’uva in vino e le spighe in pane bianco;
ma tutto si confonde nella ruota del tempo e dello spazio. Per il poeta, questa dinamica fluttuante sostiene
il continuum di materia ed energia entro il quale è faticosamente
costruita l’azione. La performance, pertanto, si pone come una
struttura pulsante, luogo della confluenza delle varie discipline artistiche,
caratterizzato dall’intersezione dei linguaggi, dalla polidimensionalità
e non dalla mera sommatoria degli elementi. Corpo, gesto, rumori, suoni,
luci, colori, oggetti e architetture, come ben si sa, entrano in gioco
con funzione interlinguistica. L’energia del corpo è spesa per
liberarsi da coordinate e riferimenti imposti e per generare situazioni
nuove, provoca la continua rottura degli equilibri, sempre temporanei,
favorisce la costruzione dei sistemi interlinguistici e intermediali
che condizionano la dinamica degli elementi di volta in volta considerati.
Il performer realizza in situ dispositivi elastici che hanno
la capacità di relazionarsi allo spazio geometrico e a quello
socio-culturale. Le tensioni poietiche fanno leva sulla libera
contaminazione, coniugando le risorse offerte dal patrimonio tecnico
a quelle della memoria e del corpo, attraverso una concezione dell’arte
dove ogni particula è portatrice di senso solo in quanto
riferita alla dimensione totale di un’opera che si vuole come
concentrazione di energie. Tutto è in funzione del tutto nell’ottica
dell’azione e non dell’oggetto artistico materiale. Si potrebbe
parlare, perciò, di una sorta di entità transmateriale
innervata da linee-forza che provocano tensioni inattese e vibrazioni
del senso. È un po’ quello che accade nelle particelle
subatomiche secondo la “teoria delle stringhe”,
[iii]
dove si ipotizza che tutta la materia e tutte le
forze nascano da un unico costituente di base. Secondo questa teoria le particelle subatomiche
non sono puntiformi, ma sono costituite da filamenti unidimensionali
(stringhe) infinitamente sottili che oscillano freneticamente.
Queste vibrazioni continue, che hanno ampiezze e frequenze caratteristiche,
si manifestano come “particelle”. Ma la cosa più
sorprendente è che la loro massa e la loro carica siano determinate
dalle differenti oscillazioni. Da ciò deriva che le proprietà
fisiche non sono che la conseguenza diretta di quelle oscillazioni;
sono, per così dire, la musica delle stringhe. Per le
forze vale lo stesso principio, cosicché ogni particella mediatrice
di forza è associata ad una vibrazione specifica. Insomma, sia le forze, sia le particelle elementari
sono fatte della stessa ‘materia’.
[iv]
Nella performance le dinamiche interne ed esterne,
le interazioni rivolte verso il proprio baricentro come verso la periferia,
comportano l’esigenza di un’incessante esplorazione, attività
che nella sua reiterazione finisce per coincidere con la trasgressione.
Ma quello di trasgressione, infatti, è un concetto che implica
pulsioni indagatrici. Esplorare, significa spesso dover superare frontiere
precluse, passaggi interdetti. Oltrepassare questi confini “invalicabili”
è compiere un gesto di sfida, sia dal punto di vista artistico
che politico. Del resto la performance nasce come evento fortemente
oppositivo. Con essa si scardinano le regole del mercato dell’arte,
quelle del linguaggio, quelle dei comportamenti socio-culturali. L’atto performante comporta momenti di
vera e propria destabilizzazione dei rapporti istituzionalizzati, siano
essi di tipo linguistico, spaziale, temporale, mediatico, per il fatto
che richiede sempre una riformulazione di codici e categorie. L’obiettivo
è quello di individuare nuove potenzialità nelle pratiche
artistiche minando convenzioni ed eludendone i condizionamenti, ma,
nello stesso tempo, utilizzando al meglio le tensioni positive che il
luogo dell’azione emana: luogo caratterizzato, ovviamente, da
valenze non solo spazio-temporali, ma anche geografiche ed etniche. E qui risiede uno degli aspetti più
interessanti di questa pratica artistica, non solo per i risvolti di
carattere tecnico-linguistico, ma anche per quelli più specificamente
politico-culturali. Il risultato poietico della performance,
infatti, varierà in ragione del grado di interattività
con il suo pubblico, che, in ogni modo, avrà differenti percezioni
al variare della regione geografica e delle coordinate culturali. Ciò
contribuisce a determinare l’unicità del momento
performativo: la performance si pone
sempre come evento irripetibile che si carica ogni volta di nuovi
valori, al di là delle barriere delle lingue e delle culture.
Ovviamente, sta al performer il compito di ri-formulare, nelle diverse
occasioni, criteri e misure di proposizione, anche confidando sulle
sue qualità intuitive e sulla propria capacità comunicativa. In effetti, attraverso il suo gesto creativo,
egli indaga ed interpreta una realtà sempre differente; innesca
un processo di comunicazione che, in presa diretta, si riflette sull’evoluzione
della sua stessa azione, condizionandola. E questo accogliere i condizionamenti,
avendo cura di evitare ogni stereotipo, può essere spinto a tal
punto da instaurare significativi rapporti di collaborazione con il
pubblico, fino al suo pieno coinvolgimento e all’assegnazione
di specifiche funzioni performative. Insomma, la performance è un tessuto
di relazioni ad ogni livello; è l’interminabile viaggio
dell’artista dentro e fuori di sé alla ricerca di dettagli
e frammenti di realtà da organizzare in nuove realtà perennemente
in divenire; è un sistema dinamico sostenuto dal labirinto di
ogni possibile rapporto tra sé e il mondo. In sostanza quello
del performer è un atteggiamento nomade che rinvia a quella “création
vagabonde”, su cui si sono soffermati scienziati come René
Thom, che vive e si organizza sul concetto di sospensione, intesa come
dilazione del momento risolutivo, come differimento dell’atto
chiarificatore, pur avendo coscienza del fatto che un momento conclusivo
deve pur esistere ed è, comunque, raggiungibile. Italo Calvino, nella sua “lezione”
sulla molteplicità
[v]
ricorda che la passione conoscitiva di Gadda lo spingeva
a vedere il mondo come “un sistema di sistemi”, come un
groviglio inestricabile da rappresentare senza attenuarne la complessità.
Il concetto ben si sposa alla scelta del performer, al suo impegno dinamico,
all’intelligenza mobile dei suoi sensi, al suo continuo ri-cercare,
al suo guardare e al suo essere guardato, al suo dire e al suo ascoltare,
alla sua voglia di perdersi negli spazi piccoli e grandi della natura
e della cultura, al procedere di sorpresa in sorpresa nel suo unico
grande racconto e, soprattutto, al suo nomadismo creativo che apre ogni
volta una nuova porta sul mondo, avendo la chiara coscienza che il mondo
è fatto di infiniti possibili dettagli e che in ogni dettaglio
è possibile aprire una nuova porta su un nuovo mondo. È
così che un gesto artistico può efficacemente trasformarsi
in gesto politico, provocando la fusione della funzione estetica con
quella etica, come più volte è accaduto nelle avanguardie
e nelle neo-avanguardie del secolo scorso. Le radici della performance
possono essere rintracciate molto lontano, ma è negli anni del
secondo Novecento che si guarda alle esperienze pionieristiche delle
avanguardie storiche con rinnovato interesse e si consolida, sulla scorta
degli stimoli anche un po’ carichi delle mitiche energie che di
lì provenivano, l’abitudine all'interlinguaggio. Rispetto
ai padri dell'avanguardia, le nuove generazioni di artisti possono contare
su mezzi più adeguati e più efficaci per operare intersezioni
tra le arti: primi fra tutti, i nuovi media, verso i quali, però,
bisogna rivolgersi con atteggiamento scaltro e demistificatorio. Eugenio
Miccini, tra i primi all’inizio degli anni Sessanta a praticare
in Italia forme di poesia d’azione nell’ambito del Gruppo
’70 (con Lamberto Pignotti, Giuseppe Chiari ed altri artisti
provenienti da ambiti disciplinari disparati) scriverà: “La
poesia nuova, sonora e/o tecnologica viene anche dai linguaggi tecnologici,
cioè dai sistemi di segno che da quei mezzi (e dalle loro organizzazioni
di diffusione) sono nati. E qui sta proprio l'insidia: questi nuovi
media hanno attuato una mutazione antropologica ed una relativa colonizzazione,
da parte del Potere, di questi mezzi e di queste semiosi. Perciò
l'iconosfera e la fonosfera urbana non possono tenersi separate dall'universo
delle comunicazioni sociali, nel momento in cui queste agiscono con
una simultaneità e con un sinergismo totali. L'occhio e l'orecchio
sono i sensi pubblici, diceva John Cage. Ma non sono il senso sociale,
in quanto non hanno in sé che passività di fronte all'azione
totale che viene offerta sullo spettacolo del mondo come percezione.
Nella nostra «società dello spettacolo», quei profeti
- per così dire - che sono gli artisti, devono disattivare, criticandoli,
i gerghi tecnologici, che sono la voce del padrone; devono riattivare
il pubblico offrendogli l'esempio di una disobbedienza e di una trasgressione
che dobbiamo praticare tutti insieme. La mano, il corpo, la parola e
le forme spurie logoiconiche, i rumori concreti e perfino la musica,
l'assetto urbano e i profumi e tutto sono stati normalizzati e codificati
in maniera perversa”.
[vi]
George Maciunas elabora
nel 1961, a New York, il progetto che dà vita al movimento “Fluxus”.
Tra poesia, musica, pittura, scultura, teatro non ci sono più
differenze. L’opera è un evento totale che ingloba in sé
tutte le discipline possibili e che avvolge il tempo e le dinamiche
del quotidiano; l’arte si pone come flusso coincidente con quello
della vita. L’anno dopo, nel primo “Fluxus Internationale
Festspiele” a Wiesbaden, si distingue il giovane Dick Higgins,
che inizia a seguire con particolare attenzione i fenomeni dell’interattività
elaborando il concetto di intermedium. Uno dei passaggi fondamentali
della ricerca artistica novecentesca è caratterizzato dalla sostanziale
integrazione dei linguaggi e Higgins evidenzia tale traguardo, mettendo
in rilievo la differenza tra mixed-medium, termine riferito ad
un oggetto artistico in cui il fruitore sia in grado di distinguere
i vari aspetti linguistici (verbale, visivo, sonoro, ecc.), e intermedium,
termine riferito esclusivamente ad un'opera in cui l'integrazione sia
completamente attuata.
[vii]
Qui, i diversi elementi si fondono in un unicum
che non consente letture differenziate; così, per esempio, una
poesia sonora è costituita da un evento artistico dove
testo, voce, suono sono strettamente fusi insieme, tanto che il suono
è direttamente determinato dal testo, attraverso la voce, e non
si pone come commento del testo o come sostegno della voce che propone
il testo. Negli anni Sessanta, le implicazioni teoriche dei concetti
di intermedium, intercodice, interlinguaggio moltiplicano
i percorsi di ricerca, sia relativamente alle tecniche che alle poetiche.
Le attività artistiche sfumano l’una nell’altra e
si concentrano in zone-limite che favoriscono nuove tipologie linguistiche
ed espressive. Per molti settori di sperimentazione si aprono
nuove ed insospettate prospettive di sviluppo: all'idea di categoria
viene sostituita quella di continuità, non trascurando
le esperienze storiche dell'avanguardia e, nello stesso tempo, considerando
attentamente la lezione di chi, come John Cage, aveva integrato fin
dai primi anni Cinquanta il proprio lavoro con alcuni aspetti della
tradizione futur-dada. La pratica del conflitto dei linguaggi favorisce
la messa in gioco di dati dissonanti. Il taglio critico, secco e deciso, contro il
sistema dell’arte alimenta l’attività artistica,
fondata sul gesto, sull’uso della voce diretta, sull’azione.
Ci si allontana dalla produzione dell’oggetto estetico per esaltare
la presenza in situazione, che vale come momento caratterizzato dai
legami forti con il pubblico, sia sul piano fisico, sia su quello psico-emozionale,
e che permette di attivare strategie di demistificazione “a caldo”,
piani di conflagrazione trasgressiva, di caustica, lucida, talvolta
feroce e crudele analisi. Oggi, in questa società del disastro,
la regola mediatica impone la visibilità come valore assoluto.
Non riveste più alcuna importanza la capacità di progettare,
di dire, di agire: l’unico fine è quello di farsi vedere.
E il traguardo della buona visibilità coincide con quello del
successo economico e sociale: un paradosso abominevole che si scontra
con quanto faticosamente messo a punto in secoli di impegno socio-culturale
e di riflessione filosofica. Da qui la necessità di affermare
con forza progetti oppositivi che possano in qualche modo incidere sul
sistema affermando controvalori che saranno tanto più efficaci
quanto più saranno conflittuali e graffianti. In un mondo che
si avvelena e si deforma nella folle corsa al potere economico, la ricerca
di punta è tanto più antagonista quanto più è
fuori dal mercato. Del resto un aspetto fondamentale della performance
è proprio quello determinato dal suo sottrarsi alle regole del
mercato e dalla maniera con cui se ne sottrae. Qui risiede gran parte
della sua forza perché ha modo di svilupparsi, al di fuori dei
condizionamenti dei sistemi di produzione istituzionali, in piena libertà:
libertà operativa e di pensiero che si fondono direttamente nell’azione.
D’altra parte le sue valenze trasgressive sottolineano costantemente
la volontà di porsi al di fuori dei quadri ufficiali dell’arte,
anche se, negli ultimi tempi, si sono registrati fenomeni di pieno asservimento
al sistema da parte di autori di eventi pseudoperformativi, costruiti,
con ampio dispiegamento di mezzi, come veri e propri spettacoli destinati
al mercato, da cui trarre successivamente sottoprodotti (videoclip,
fotografie, multipli, ecc.) da immettere nel circuito dei musei, delle
gallerie e dei collezionisti. È invece nella tradizione della
performance la sua povertà di mezzi, che, in realtà, rappresenta
un aspetto non secondario della sua organizzazione strutturale, dato
che la flessibilità e l’adattabilità ai differenti
contesti entrano in gioco come elementi che la caratterizzano sul piano
linguistico. Il performer deve essere sempre pronto ad affrontare le
situazioni più diverse, in presenza di grandi apparati tecnologici
o in luoghi privi di elettricità, in un auditorium o in un rudere
abbandonato, in una piazza o sulla riva del mare. Al performer, poeta della
contemporaneità, si richiede un gesto fondamentale: quello di
riappropriarsi del patrimonio materiale che fluisce attraverso i sensi;
perché la poesia passa per il corpo, che si pone come nodo di
centinaia e migliaia di canali sensuali in entrata e in uscita. L'intelligenza
attiva è corpo; il gesto poetico è corpo; il corpo è
ritmo e senza ritmo non c'è linguaggio. D'altro canto, diceva
Roland Barthes che “non c'è linguaggio senza corpo”.
[viii]
In realtà il poeta-performer si offre al suo
pubblico segnando una vera e propria volontà di dissipazione,
tanto da mettere in ballo tutto se stesso, ma dove dissipazione vale
anche liberazione, dove dissipazione è un aspetto del linguaggio,
un modo di entrare in contatto con l’universo. Ma non si tratta
della dissipazione astuta e trionfante dell’avanguardia istituzionalizzata,
ricca e protetta; è più che altro la pura offerta di sé,
avendo scelto una strada di povertà, piuttosto rigorosa, ma tutt’altro
che ingenua, sicuramente provocatoria in questo contraddittorio occidente
tecnologico, talvolta paradossalmente eccessiva, certamente rischiosa.
In questo senso, sia pure a fronte delle strategie tecnologiche che
impegnano i nostri anni e dei risultati del necessario confronto con
l’evoluzione dell’universo elettronico, il valore sul piano
tecnico, linguistico ed estetico dell’arte d’azione può
essere misurato attraverso i seguenti parametri fondamentali: la presenza
del corpo (intesa come fattore polisensoriale, cardine dinamico,
polo pulsante), l’evento (inteso come momento interattivo
irripetibile), l’intermedialità (intesa come intersezione
di territori mediatici, di codici e di linguaggi), la tensione performativa
(intesa come carica potenziale da impegnare nella performance, dove
il corpo vive il suo rapporto con lo spazio, il tempo, gli oggetti,
le protesi strumentali). Questi elementi caratterizzano, oggi, pratiche
artistiche appoggiate ad una rete, non necessariamente o non solo elettronica,
fondata sulle relazioni tra centri di elaborazione estetica diffusi
un po’ in tutto il mondo, che giustificano la loro sopravvivenza
sui valori “politici” del rapporto umano. Fratellanza, tolleranza,
convivialità, libertà di comunicazione, al di fuori dei
vincoli del business dell’arte, sono valori condivisi, nella generalità,
da schiere di “artisti nomadi” di oriente e occidente. Un'ampia
quanto significativa frangia di operatori, infatti, insiste da anni
sul concetto di nomadismo. Ricordiamo che nel 1986, a Québec,
mutuando tensioni già in atto, Richard Martel propone un articolato
festival di performance proprio per sottolineare questo atteggiamento.
La manifestazione, denominata "Espèces nomades", evidenzia
l'importanza delle pratiche artistiche dominate non solo dalla fusione
dei linguaggi e delle tecniche, ma anche da dimensioni esistenziali
e modi di vita. In quell'occasione vengono sottolineate le analogie
tra i trovatori medioevali e i performer contemporanei, che fondano
la loro ricerca su un mélange tecnologico e linguistico che testimonia
la ricchezza e l'ampiezza del concetto di performance. Ma questo artista
non è nomade soltanto in senso metaforico: egli, infatti, da
una parte attraversa i linguaggi, dall’altra si relaziona e si
sposta nel mondo alla scoperta di altre realtà culturali, trascinandosi
dietro bagaglio tecnico e universo linguistico. L'arte nomade, insomma,
non solo fa riferimento al corpo e a tutti i suoi prolungamenti, alle
sue protesi; ma anche ai tessuti di relazione che riesce a connettere,
annotando ogni passaggio e registrando ogni mutazione, facendo leva
anche su quelle componenti topologiche che finiscono per determinare
ciò che Roger Chamberland, con efficace gioco di parole, riferendosi
all'unità perfetta e alla sostanza attiva, definisce “espaces
monades”.
[ix]
In realtà questi “espaces monades”
costituiscono le molecole di una materia pulsante alimentata da “espèces
nomades”: espèces che garantiscono la tenuta energetica:
tenuta energetica che pervade i continui spostamenti molecolari di un
universo che è anche mondo e specchio del mondo. In quest'ottica,
lo scambio internazionale è alla base del fondamento culturale,
artistico ed esistenziale. Del resto l'impegno degli “artisti
nomadi” è quello di approntare strategie che collochino
i principi del pluralismo e della tolleranza e i temi dell'uomo e del
suo destino tecnologico in uno spazio critico che si opponga fermamente
ad un'informazione (e non solo a quella) asservita agli interessi di
quei gruppi di potere per i quali la logica dell'immediato profitto
è al di sopra di qualsiasi altro valore. Contro questa logica,
la tensione creativa degli “ambassadeurs”,
[x]
nomades & monades nel/del mondo, può ancora svolgere un ruolo fondamentale, sia
attraverso lo scambio diretto, vivo e contaminante, sia con il supporto
delle nuove tecnologie. Un lavoro immane! Si inscrivono perfettamente
in questo quadro le poetiche dello scambio, da una parte, e della flessibilità
e duttilità del disegno poetico, dall'altra; e oltre l'interattività
mediatica, si assiste anche alla contemporanea crescita del lavoro collettivo
e interattivo diretto e reale. Manifestazioni, animate da questo spirito
sono oggi numerosissime. Da più di qualche anno, come reazione
alla melassa postmoderna, il fenomeno si affaccia in tutto il mondo
e utilizza rapporti variegati con le odierne tecnologie, facendo salvo,
però, il valore della “presenza” forte dell'artista
e ricercando nuovi rapporti con le forme del testo, nell'intenzione
di realizzare disegni poietici fortemente antagonisti, sostanzialmente
orientati verso quello che sarà l’ultratesto trasversale
di una nuova lingua poetica che vivrà di polifonie intermediali.
[i]
A. SCHWARZ, L’immaginazione
alchemica, La Salamandra, Milano 1979.
[ii]
PARACELSO, Paragrano
(a cura di F. MASINI), Laterza, Bari 1973.
[iii]
Principio che risolve il conflitto
tra la teoria della relatività generale e la meccanica quantistica
[iv]
B. GREENE, L’universo
elegante, Torino, Einaudi, 2000.
[v]
I. CALVINO, Lezioni americane,
Torino, Einaudi, 1988.
[vi]
E. MICCINI, La poesia sonora
e la poesia tecnologica, in Concerti di poesia, 1966 - 1982, LP 33, Radiotaxi, n°9,
Lotta poetica & Studio Morra, Verona-Napoli, s.d.
[vii]
Cfr. D. HIGGINS, Horizons.
The Poetics and Theory of the Intermedia,
Southern Illinois University Press, Carbondale, 1984. Il capitolo "Intermedia"
riprende il saggio pubblicato in "Something Else Newsletter",
vol.1, n° 1, New York, 1966.
[viii]
R. BARTHES, La grana della
voce, Torino, Einaudi, 1986.
[ix]
R. CHAMBERLAND,
Espèces nomades, in “Inter” n°37, Québec
1987.
[x]
Nel 1997 Julien Blaine organizza
a Ventabren un’esposizione dal titolo “Les ambassadeurs
au V.A.C.”, con opere di artisti definiti “nomades, nomades absolument” [catalogo]. |