"L’ASSOLUTO CREDO DEL POLIPOETA" / Enzo MINARELLI

 

dotto breviario dedotto o indotto attraverso un dialogo interagente con le arti minori e maggiori

 

De Chirico dipinge “L’Incertezza del Poeta” nel 1939, la figura centrale avvolta in un panno bianco si propone come un simbolo d’ambiguità, l’accostamento con le banane crea un voluto effetto inquietante.

 

La poesia sonora è da sempre, avvolta in un manto di ambiguità sonora. Le origini sono per espressa volontà dei poeti, foneticamente informi: il Futurista italiano Depero con il suo Manifesto dell’Onomalingua espressamente dedicato al valore dell’onomatopea, il linguaggio NeoZaum dei vari Futuristi russi che poggia sull’annientamento della lingua e sulla sua ricostruzione secondo basi del tutto arbitrarie, la poesia senza parole di Hugo Ball e l’infantilismo ingenuo e insistente di Roul Hausmann.

 

Antonin Artaud pubblica il suo Eliogabalo nel 1934, permeato neanche tanto velatamente di erotismo ed esoterismo. Il senso della sua ricerca si sintetizza nella frase <avec moi c’est l’absolu ou rien>.

 

L’anarchia poetica, il piacere di divulgare infamie ovunque, l’ampiezza, l’eccesso, l’abbondanza, la dismisura sono vie battute a più riprese dalla poesia sonora. Per infamia è da intendersi l’insofferenza verso ogni tipo di costrizione linguistica, ovvero la lingua costituita, la lingua come burocratica istituzione, quella lingua verso la quale i Dada si erano scagliati con virulenza senza peraltro scalfirla, troppo giocoso e istintivo il loro procedere. Spetterà al Lettrismo francese (Isou, Lemaître) dare la spallata finale, decostruendo il tessuto linguistico, sradicandone il malefico significato.

O tutto o niente.

Le consolidate coppie artaudiane, Ordine-Disordine, Unità-Anarchia, Poesia-Dissonanza, Ritmo-Discordanza, Grandezza-Puerilità, Generosità-Crudeltà, calzano perfettamente l’abito multicolore della poesia sonora, che è sempre andato, va e andrà controcorrente, in nome del Disordine, dell’Anarchia, della Dissonanza, della Discordanza, della Puerilità e della Crudeltà. La poesia se è vera può far versare sangue, Henri Chopin ha identificato il cancro della comunicazione nella parola; ingoiare il microfono significa nutrirsi di suoni, digerirli e defecarli, per cui la poesia diviene la molteplicità triturata. Essere poeti accorti e coscienti (il per sè dell’esistenzialismo sartriano), significa dedurre cose interessanti da ogni incontro con l’oggetto e con il concetto altrui (il cosiddetto in sè per dirla ancora con Sartre), variando sapientemente il diapason della propria voce. Posizionarsi sempre verso la dissoluzione dei principi.

 

Balthus dipinge un quadro della serie I Giocatori di Carte, siamo negli Anni Sessanta, quel quadro è l’unico che io ricordi a trasmettere odio verso lo spettatore, perché c’è una mano che tira una tenda e lo sguardo si apre sui giovani giocatori di carte che non stanno facendo nulla di male ma non vogliono essere osservati e rimandano occhiate atroci verso l’inopportuno scocciatore.

 

Non disturbare il poeta al lavoro, l’odio va per il perbenismo editoriale, la superficialità del lettore, il rifiuto dell’establishment poetico. Il poeta sonoro lavora nella sua solitudine, solitudine che riesce a spettacolarizzare grazie ad un gesto d’estrema vanità e d’indiscussa necessità. Il poeta deve andare verso lo spettacolo, comportarsi con la stessa sfrontatezza di una bella donna che è avvezza ad essere guardata.

Lo spettacolo è per il poeta sonoro, il poeta sonoro è per lo spettacolo:

Il Manifesto della Polipoesia, 1987:

<La Polipoesia è concepita e realizzata per lo spettacolo dal vivo, si affida alla poesia sonora come prima donna o punto di partenza per allacciare rapporti con: la musicalità (accompagnamento o linea ritmica), la mimica, il gesto e la danza (interpretazione o ampliamento o integrazione del tema sonoro), l’immagine (televisiva o per diapositiva, o dipinto o installazione, come associazione, spiegazione, ridondanza o alternativa), la luce, lo spazio, i costumi e gli oggetti.>

 

Balthus dipinge L’Attesa, (1995-2001), cani, gatti e il corpo nudo di una giovinetta che pare inanimato, in mano un liuto.

 

Durante un festival nel Midi Francese, ho fatto una performance in un cortile, il primo pomeriggio del luglio 2002, c’era abbastanza afa. Tutto pareva inanimato, fermo, il caldo attutiva tutto, ma c’era chi era in attesa, un cane rintanato nella sua cuccia nei pressi del palco, appena spingevo sulla voce, calcando toni alti e forti, puntualmente lui rispondeva, a suo modo, nel suo linguaggio, mi stava dicendo che in effetti non si sarebbe stancato di ascoltarmi, e così fu.

La stessa cosa si è ripetuta lo scorso mese durante una mia performance al Museo di Villa Croce di Genova.

Repetita iuvant.

Prezioso il dialogo con gli animali ma anche con gli oggetti.

Balthus, Natura Morta, 1983.

Gli oggetti parlano, emettono indecifrabili messaggi, un tozzo di pane, un cesto di mele, un bicchiere di vetro mezzo pieno. Il poeta sonoro è un San Francesco che redime i lupi e scioglie gli enigmi materiali. Accumula somatizzando la violenza esterna, e la rimanda sotto forma di vocalità e oralità.

 

La vocalità consiste nella ricerca sonora dove la lingua perde il suo connotato di riconoscimento comune, il lavoro verte sul singolo fonema, sulla sillaba, impossibile aspettarsi un qualcosa che assomigli alla quotidiana parlata: il lavoro dei Lettristi francesi, lo stesso gruppo ruotante attorno alla rivista francese Où.

L’oralità svolge ugualmente una ricerca sonora, in questo caso il poeta fa leva più sulle parole che sui singoli suoni, più sulla frase e la relazione grammaticale che sullo spezzettamento del contenuto, è, per dirla con De Saussure più sul versante del Signifiè che del Signifiant. I Futuristi italiani, il Dada, il Surrealismo hanno operato sul campo dell’oralità.

 

Ella Fitzgerald, regina del jazz, re riconosciuto ne era Louis Armstrong, ufficialmente canta The Girl from Ipanema, una registrazione live a metà degli Anni Sessanta, avvenuta probabilmente in un noto locale della riviera viareggina.

Ufficialmente sta eseguendo una canzone, un capolavoro di canzone,(autori Jobim,  de Moraes, Gimbel, per la voce di João Gilberto, 1963) perché c’è, indiscutibile, l’accompagnamento di un batterista che sudando, sbatacchia gli ottoni e aziona il pedale della grancassa, affiancato da un evanescente contrabbassista. Una canzone, è noto, si avvale di una forte componente musicale, mentre Ella Fitzgerald, in quella performance fa di tutto, tranne che una canzone, solo a tratti si ricorda dei malcapitati musicisti che non sanno che pesci pigliare perché lei, microfono impugnato saldamente, compie evoluzioni funamboliche di nonsense, biascica monosillabi, si ferma, borbotta, bisbiglia, sospira.

Perfetto esempio di poesia sonora, di ricerca vocale, perché la musica viene rintuzzata in un cantuccio, relegata ad una funzione secondaria rispetto alla sperimentazione linguistica, perché il tanto aspettato (ancora l’attesa!) significato viene costantemente rimandato. Evidente, è la vocalità a farla da padrona. Il trionfo della voce per la voce e nella voce.

 

Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571-1610)

dipinge nel 1605 un Ecce Homo, visibile a Palazzo Bianco a Genova. Tutti guardano l’Ecce Homo io guardo il volto del mercante in primo piano sulla destra.

La poesia sonora ha il sommo dovere di essere tangenziale alle cose normali, scorrere lungo il perimetro degli eventi umani, sfiorarli, dar voce come pretendeva il grande bardo americano Walt Whitman, agli emarginati. Solo la voce è protagonista.

Così Il Manifesto della Polipoesia, 1987.

<L’oggetto lingua deve essere sempre più indagato nei suoi minimi e massimi segmenti: la parola, elemento base della sperimentazione sonora, assume i connotati di multiparola, penetrata al suo interno e ricucita al suo esterno. La parola deve poter liberare le sue polivalenti sonorità.>

 

Per godere il bello bisogna esserne consapevoli, ecco perché ho scritto quel manifesto, volevo che il poeta sonoro, il polipoeta per godere appieno la bellezza della sua performance, fosse consapevole di quanto stesse eseguendo di fronte ad un pubblico, disposto a vederlo, ad ascoltarlo.

 

Prima di parlare di uno scultore o di un anti-scultore come Alberto Giacometti, svizzero della landa dei Grigioni, bisogna far affiorare nella memoria visiva quella famosa foto scattatagli da Henri Cartier Bresson, dove lo si vede in un atteggiamento buffo, c’è un’acquazzone in atto e lui attraversa la strada zeppa di pozzanghere tirandosi sopra la testa la giacca a ripararsi dall’intemperie. Giacometti si considerava uno scultore fallito, <impossibile fare una testa come la si vede nella realtà - era solito dire, poi aggiungeva - mio fratello è il vero scultore!>.

 

Il poeta sonoro deve avere il coraggio di dichiarare <sono un poeta fallito>, impossibile usare la parola così come essa è nella realtà, impossibile usare la parola scritta, impossibile leggere la parola così come essa è. Il poema sonoro può essere solo ascoltato o visto performare dal vivo. La scrittura è bandita per sempre.

 

Se Giacometti inventa come proprio stilema tecnico il pastillage o la tipica pittura a cages o planques, è originale in questo. Il polipoeta sonoro ha davanti tutto lo scibile dell’oralità e della vocalità per trovare la propria ragione e non essere epigone. Essere o non essere, diceva Parmenide. C’è la libertà di scelta, fare molta attenzione ai particolari, è dalle piccole cose che si vedono le grandi. Un poema sonoro solo apparentemente risulta lontano perché trasmette il rifiuto del codice comune, ma è poi un male essere lontano? Lontano da cosa?

Lontano dalla scrittura per esempio, lo ribadisco, il poeta sonoro non ne ha bisogno, lui lavora con la voce. Lontano dalla catena sintattica, lontano dal significato a tutti i costi. Anche il disegno giacomettiano a prima vista sembra uno scarabocchio, ma dallo scarabocchio prende vita una forma vitale. Il poema sonoro sviluppa un rumorismo fonetico, un nichilismo linguistico ma dalla distruzione della lingua nasce la comunicazione del suono nuovo e primigenio.

 

Alfredo Giuliani, noto esponente del Gruppo 63, in occasione del suo ottantesimo compleanno, ha rilasciato a Repubblica 21 novembre 2004, giornale al quale ha collaborato come critico letterario sin dalla fondazione, una lunga intervista, dove tra le tante cose dette, c’è la seguente dichiarazione:

<E’ scontato scrivere poesie. Mentre far poesia è la cosa più complicata e complessa che si possa realizzare con il linguaggio>.

Alfredino mi fa pensare all’imprendibilità del linguaggio, verso il quale siamo perennemente in cammino, secondo la nota formula heideggeriana.

Apparentemente sembra facile comporre poesia sonora, molti la praticano, circa un duecento poeti in tutto il mondo secondo un censimento di marca australiana realizzato negli Anni Novanta, pochi la fanno. Perché pochi? Perché bisogna avere intrapreso fino in fondo la strada che porta all’esclusione della scrittura, della narrazione, del voler dire e del voler raccontare.

Già Paul Valery nei suoi Scritti sull’Arte (1934), ammoniva di non avere fretta di giungere al significato, per cui curare la voce, impostarla alla perfezione sulle sillabe, sui ritmi era la sua ricetta per recitare versi. Ciò si adatta alla poesia sonora, soprattutto se svincolata dalla zavorra del contenuto.

Tecnologicamente è alla portata di tutti, concettualmente no. Ci vuole una maturazione critica sull’uso del linguaggio.

Oggi lo sviluppo informatico permette al poeta sonoro un’accelerazione del suo lavoro, un rapporto più diretto tra produttore e prodotto, però se manca a monte un approfondimento progettuale, o altrimenti detto, se non c’è il supporto di una teoria, la pratica ne viene irrimediabilmente svilita.

 

Giovanni da Modena nel 1410 circa dipinge nella Cappella Bolognini del Duomo di Bologna, secondo le volontà dell’omonimo committente, un dipinto che raffigura l’aldilà a tinte fosche, tale da far passare la voglia di peccare a chiunque. Quindi un King Kong centrale che ingoia uomini e donne nude, un Mangiafuoco terribile che faccia soffrire le pene dell’Inferno ai peccatori.

La risposta più bella a questo grande affresco viene data qualche passo più avanti da un altro pittore emiliano, il Francesco Mazzola detto il Parmigianino,  con un San Rocco, il cane e il committente. Questo San Rocco è estatico, tanto preso dal suo furore che ha la gamba tesa e sta in punta di piede.

 

La poesia sonora mira all’estasi, cerca di ridefinire l’indefinibile e fissare ciò che sfugge, l’impalpabile, cerca di di dire l’indicibile non per impaurire o per stupire ma per costruire. I Lettristi hanno dato l’ultima spallata al linguaggio dopo vari tentativi più o meno abortiti da parte dei poeti Dada; nel loro afflato annientante, il gruppo parigino capitanato da Isou aveva avuto l’ardire di metterci un pizzico d’ideologia: distruggendo il linguaggio, intendeva distruggere la società. Vecchio vezzo questo dell’abbattimento della società, già praticato da schiere di poeti romantici.

Accanto all’atto distruttivo, il polipoeta sonoro ha sempre allegato l’atto costruttivo.

Non ha mai voluto né preteso annullare il messaggio e con esso lo strumento, anzi ha sempre tentato di rinvigorirlo, di svecchiarlo, renderlo più flessibile e duttile ai fini di una più diretta comunicazione.

Ancora il Manifesto della Polipoesia:

<L’oggetto lingua deve essere sempre più indagato nei suoi minimi e massimi segmenti: la parola, elemento base della sperimentazione sonora, assume i connotati di multiparola, penetrata al suo interno e ricucita al suo esterno. La parola deve poter liberare le sue polivalenti sonorità>. Repetita iuvant.

 

Gropius alla Bauhaus amava la trasparenza, il dentro-fuori, il fuori-dentro, arredando gli ambienti con telai, ringhiere e termosifoni. A Kandinsky non piaceva affatto soggiornare in quelle stanze dove chiunque lo poteva vedere, allora mise delle tende, in difesa della sua privacy, e coprì il bianco di Gropius con più di 170 tonalità di colore.

 

La poesia sonora deve poter essere trasparente, ma possedere quel senso di resistenza  che ha il cemento armato di Tadao Ando, così rispettoso della natura circostante.

 

<Doctor Faustus the insatiable Speculator> questa la lezione di un grande drammaturgo pre-elisabettiano e pre-shakespiriano, il Cristopher Marlowe, seconda metà del Cinquecento, quali insegnamenti discendono da questa spia omossessuale, morto accoltellato durante una zuffa in una bettola della Londra malfamata?

Molti, in primis, una totale abolizione del limite nella sperimentazione, in preda il polipoeta alla libido dominandi, attua la dittatura del poeta sul poema, poi viene operando attraverso una libido sciendi  tutto quanto può essere saccheggiato a livello di conoscenza, ogni disciplina può dare il proprio contributo sotto l’alto patronato della voce, poi la libido sentiendi illumina le sensazioni poetiche infiltrandole nelle pieghe sonore fino alla libido excellendi, ineffabile status di vittoria perché il polipoeta sa di essere nel giusto e pertanto procede avanzando senza sosta, forte della leggerezza kunderiana.

 

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