GALASSIA POESIA SONORA Enzo Minarelli
1 Chi fa poesia sonora
oggi
Questa panoramica, sicuramente incompleta sui poeti sonori a partire dagli
Anni Cinquanta, è stata redatta seguendo i festival internazionali
e selezionando per l’ascolto e la visione, opere dal nostro Archivio.
Inizieremo con qualche poeta beat, perché le loro erano più
in odore di performance che di semplice lettura, a meno che non si voglia
dare al termine americano di reading, un significato mediano tra gli
estremi di lettura di poesia lineare e performance di poesia sonora. Allen Ginsberg, ha una voce carismatica, grossa e tuonante, ci ricorda Pound,
in qualche maniera, trova la sua forza nel mantra, perché quando
opera con poesia musicata, anche nel caso del remake di The Tiger
di William Blake, evita i rischi della canzone, salvando i bellissimi
trochei del testo. Quando invece improvvisa per l’ex-beatles John
Lennon, l’11 dicembre 1980, due giorni dopo il suo barbaro assassinio,
cede eccessivamente alle lusinghe musicali e finisce per fare un pezzo
decisamente blues (1). Ugualmente dicasi di Patti Smith, per quanto sofisticata e intellettualizzata
che sia, resta una cantante, con validi testi e buona musica. Lawrence Ferlinghetti ha visto bene quando criticava il compagno d’avventura
Ginsberg accusandolo di eccessi buddisti che lo facevano sbandare dietro
eremitaggi intimisti. Tanta interiorità gli precludeva il contatto
con la gente vera, e secondo il direttore della famosa libreria-casa
editrice Citylights, la poesia può ancora fare “un sacco
di cose belle alla gente” (2). Se prendiamo in esame il suo prodotto,
ascoltiamo una sorta di cool jazz con parole a commento, neppure trattasi
di sprechgesang, e in questa corsia il sedicente poeta post-beat
Ken Nordine, con il suo Upper Limbo (1993)
ha fatto decisamente meglio, senza voler per questo scomodare una quanto
mai azzardata discendenza schöenberghiana. Di François Dufrêne fondatore dell’Ultra Lettrismo resta
il puro fonetismo, da tipico disturbo acustico, valida spallata all’istituto
della lingua. Terry Fox, autore da Insalata mista, è
uno dei pochi che senza debordare nella musica minimalista (Alvin Lucier
con I am sitting in a room, nella fattispecie) ,
dialettizza con lo spazio, anzi è lo spazio che fa il suono,
lo altera e lo modifica. Chi si ricorda più di un suo intervento
alla chiesa bolognese di S.Lucia nel 1979? Maurizio Nannucci è sonoramente concettuale, non conta il ritmo tonale,
conta il ritmo semantico, un perenne stand-by sulla lingua, uno stop
sulla langue, un intrattenersi sullo strumento per dire
qualcosa sullo strumento, un poema meta-poema, svolto secondo i tipici
dettami dell’accumulazione. Charles Amirkhanian, grande sabotatore elettronico, opera come Nannucci, ha
solo in più la marcia analogica-digitale dell’apparato
tecnologico. John Giorno, è l’eco in persona, anzi potremmo indentificarlo
con il moog synthetizer degli Anni Settanta perché non c’è
poema dove questo accorgimento tecnico di espansione acustica non venga
usato. Diremmo che in Giorno l’uso tecnologico è emotivo,
di pelle mentre più meditato e mediato da parcellizzati story-board
in Amirkhanian. Jackson MacLow, via Cage, opera per tempi lunghi, attraverso le chance
operations con voci sovrapposte, tese alla distruzione
semantica. Jerome Rothenberg, è l’unico esempio vivente di etnopoesia, riprende
il canto folk degli indiani e lo ripropone come fosse un ready-made
sonoro, ne risulta una sonorità connotata di grande effetto,
lamentosa, a tratti incomprensibile ma densa di pathos, una lingua dura,
gutturale, anche se il modulo acustico per il suo Horse Song è sempre uguale, non ha variazione
di sorta. Ernst Jandl sin dai primi Anni Sessanta, dai tempi del suo famoso intervento
a Londra con i poeti beat, ha operato a tutto spiano con le tecniche
più appropriate per la poesia sonora: permutazioni, intraverbalismo,
elettronica e musica al servizio della parola, il wit del gioco di parola,
una creazione stringente a imbuto. Gerhard Ruhm ha il senso tecnico del tempo, forte della permutazione, si avvale
della ripetizione per lievi eppur percettibili spostamenti di senso. Helmut Heissenbüttel, ha agito sempre attraverso letture. Adriano Spatola, grande istrione dell’improvvisazione, era il suo corpo
a farsi voce, piuttosto che la voce ad uscire dal suo corpo. Valeri Scherstjanoi, insuperato interprete del Futurismo Russo, un fonetismo
di pura vocalità, con sapiente dosaggio di ingredienti spettacolari
(il più efficace senza dubbio l’uso dei pugni contro l’ossatura
del suo cranio considerato alla stessa stregua di un tamburo), e via
via sequenze di onomatopee e virtuosismi al microfono. Franz Mon, sdoppiamenti fonetici articolati, come sostenuto dai più,
in moduli assai radicali, mentre la voce insegue la pista base per coloriture
timbriche, lo spettacolo langue, non è performer, non bastano
i gargarismi Anni Cinquanta per reggere un lavoro che è intelligente
sulla carta, ma carente alla prova del palcoscenico. David Moss, è dotato di una grande presenza scenica, salda e versatile
potenzialità vocale, istrionico ma rigoroso, sa dove sta andando
per cogliere l’effetto al momento giusto, cosciente e vigile,
coniuga bene la mimica sia facciale che corporale con la voce. Oskar Pastior usa la voce unica e solista al microfono, seduto, quasi come
un conferenziere, si avvale della permutazione, dell’allitterazione,
procede per onomatopee, libere associazioni, una tecnica oulipiana,
in una esecuzione un po’ fredda, troppo calcolata e troppo dipendente
dallo Zaum russo, Chlebnikov, nella fattispecie. Chris Mann, ripete sempre lo stesso stilema di una lettura iper-veloce ai
limiti della incomprensibilità, sostenendo che noi, ascoltatori,
abbiamo un ritmo di ascolto lento, mentre lui, lettore, è nella
norma. In realtà quello che esegue, è una lettura anomala
fatta di continue elisioni, resta la linea timbrica della impostazione
frastica, una nenia cantilenante gravata da un’intonazione australiana,
accelerata. Brenda Hutchinson soffiando dentro un lungo tubo arcuato sottrae ad un lontano
passato, lugubri suoni primitivi, fortemente ancestrali, consegnandoli
sotto l’etichetta del rumorismo fonetico, aiutato
dallo strumento in questo caso. Miroslaw Rajkowski, è il suono ipnotico elevato alla potenza, la voce
dell’aldilà, la voce dell’universo che viene, ci
prende e ci trasporta. La parola perde una volta per tutte il suo legame
con lo strato intenzionale della lingua. Tibor Papp fa leva sui grandi ritmi vocalici per gradevoli divertissement.
Un suo poema, universalmente noto, sfrutta tutte le possibile variazioni
sia semantiche che fonetiche sul nome Cicciolina, nota porno-star italo-ungherese,
anche parlamentare radicale. Jaap Blonk, oltre che grande interprete di Schwitters, regge la scena in virtù
del suo dispiegamento polmonare, minimi fonetismi dilatati, ampliati
fino all’inverosimile, un rumorismo fonetico moderno, senza
però perdere di vista totalmente il significato. Serge Pey quando performa, utilizza tutto se stesso, nel senso che ogni parte
del suo corpo è al lavoro, le mani che agitano i bastoni della
pioggia sui quali ha inciso parole e segni, i piedi
che ritmano il tempo sbattendo rumorosi gambali, e poi la voce che è
impostata sugli alti toni da comizio, per un effetto d’insieme
non distante dall’ipnosi. Xavier Sabater muove il corpo in perfetta sintonìa con il senso del
poema che sta eseguendo, una partitura corporale al seguito di ogni
poema, studiata e cercata, una danza mimica-declamatoria. Endre Szkarosi drammatizza grazie ad una potenza vocalica impressionante,
un uso perfettamente polipoetico della musica e degli oggetti. Le sue
performance hanno un impatto visivo di grande effetto. Fernando Aguiar letteralmente costruisce i poemi in scena, usando il corpo
come pagina bianca su cui scrivere, avvalendosi di strutture che appaiono
come vuote all’inizio, per poi riempirsi via via di lettere, oggetti,
sempre guidati dalla voce-leader. Giuliano Zosi, già acclamato interprete di Schwitters, possiede la
rara qualità del tempo, o meglio della pausa, controllando ogni
minimo muscolo del proprio corpo, e portando la vocalità a livelli
intensi, riesce a creare pathos e paradossalmente anche comicità. Sten Hanson ha la grande dote dell’elettronica al suo servizio, sfruttando
l’iterazione, svolge il tema linguistico straniandolo e relazionandolo
al corpo e all’oggettistica. Esther Ferrer, ancora il corpo, l’astuta presenza del corpo nel suo
essere temporalmente presente sulla scena, con rapide incursioni nel
linguaggio inteso come ostacolo e quindi ridicolizzato. Luisa Sax prende il lato ironico del linguaggio spesso in chiave allegramente
erotico, per evidenziarne le contraddizioni, i nonsense che sono poi
gli stessi del rapporto uomo-donna. Larry Wendt è maestro nell’uso dell’elettronica, calibrata
e sviluppata senza eccessi, perché la sua vera aspirazione è
quella narrante che di fatto realizza; i suoi sono racconti sonori senza
morale finale né senso recondito, semplicemente racconti senza
un inizio, senza una fine, il raccontare per il piacere solipsistico
del racconto. Enzo Berardi, gruppo Ultrash, rende teatralmente quel poco che resta della
parola, riproponendola con la stessa violenza sia fisica che buccale,
quella stessa violenza che sta attorno a noi nella consueta quotidianità. Massimo Mori sa ben equilibrare i movimenti corporali, al limite della danza,
con il senso direzionale della performance, agendo per sottrazione o
metonimia. Tomaso Binga è abile nell’incunearsi nelle pieghe del linguaggio,
con tecniche intraverbali per estrarne gioiosi giochi umoristici, ma
si ride a denti stretti perché sa ricondurre il gioco alle tristi
realtà della politica o del vivere quotidiano. Seiji Shimoda ha una fortissima presenza scenica, non fa nulla se non piegare
carte o muoversi lentamente, eppure catalizza attenzione, anche perché
il tratto sonoro, apparentemente secondario, è il vero fulcro
del suo stare in performance. Del suo lavoro dice, “quello che
faccio sono varie azioni collegate all’insignificante della vita,
all’inusuale, al metaforico, al comunicativo, all’esposizione
della vita stessa, al visibile-invisibile, al cambio dei valori, le
necessito come una sorta di massaggio per la mia vita” (3). Paul Dutton mette insieme tutti i possibili e più impensabili suoni
prodotti da quel mirabile strumento che è la bocca e nel suo
caso anche la faccia (le guance, il mento, la fronte, gli occhi, il
naso, le ciglia e le sopracciglia). Un linguaggio a suo modo, svuotato
finalmente dalla dittatura dei fonemi, ma ricco, splendidamente ricco
e coinvolgente. Lo stesso dicasi di
Nobuo Kubota. Mark Sutherland tiene una linea da cantante rock, anche negli atteggiamenti
scenici, ma non sta facendo una canzone, semplicemente considera il
linguaggio in posizione superiore a tutto il resto (musica, immagini
e oggetti). Anna Homler modula la voce come un canto, ma un canto sui generis, calcando
sulle vocali per impossibili circonvoluzioni da scioglilingua, del tutto
gratuite e inventate, un canto pertanto sempre relazionato all’oggetto,
un canto primitivo, per ritmi ammalianti, novella sirena postmoderna.
Philadelpho Menezes riesce a stabilire contatti stretti tra il potere delle
parole e il potere delle immagini, imponendo anche la valenza del corpo,
che ben si adatta alle rarefazioni linguistiche da lui sviluppate elettronicamente.
Llorenç Barber ha il tempo incorporato nel corpo del performer, agisce
per stratificazioni ridondanti, fino allo stordimento del linguaggio
stesso, vinto per sfinimento.
Bartolomè Ferrando è il valore permutazionale in sè,
ne domina a menadito la tecnica, trovato un pertugio contro il muro
del linguaggio, vi penetra e lo demolisce al punto da annullarlo, attraverso
riduzionismi fonici, mimici e oggettuali.
Note 1 Allen Ginsberg in
Wuppertal, poems and songs, Düsseldorf, Edition S-Press, 1998. (CD). 2 I’m not ready
to leave the street, una intervista con Lawrence Ferlinghetti,
4 ottobre 1991 in L.Ferlinghetti, No escape except peace, Wuppertal, S-Press, 1981. (Audiocassetta). 3 Japan Society presents
a performance art, in http://www.franklinfurnace.org. (New
York).
2 I contenuti della
poesia sonora
C’è chi si chiede se ha ancora senso l’emozione in poesia
sonora. Dopo aver rinnegato il soggetto a netto favore di una creatività
tout court, oramai si è andati irrimediabilmente verso l’annichilimento. C’è stata la stagione del rumorismo fonetico e dell’annientamento.
Però è giunta anche la stagione del recupero semantico,
l’età della ragione dopo i fasti dell’irrazionalità. Artaud ammoniva, “basta con i giochi linguistici, gli artifici della
sintassi, i giochi di destrezza, le formule bisogna trovare ora, la
grande legge del cuore, la legge che non sia una legge, una prigione,
ma una guida per lo spirito perduto nel suo labirinto” (1). Crediamo fortemente in questa dichiarazione, perché indica la strada
verso una piena legittimazione della poesia sonora togliendole quello
strato di superficiale instabilità e di cronica incapacità
ad affrontare le cose che contano, la autorizza ad essere stazione ricetrasmittente
verso il mondo, onda sonora di un voluto, ricercato zeitgeist . La rende spendibile al mercato delle grandi idee e dei grandi sentimenti
del suo tempo. Questo significa che dal bordo dell’emarginazione
periferica, avviene una riappropriazione dei contenuti non sotto l’aspetto
commerciale di un impoverimento intrattenitore o pegggio di un ammiccamento
lineare, anzi, al contrario, riavvicinarsi al centro comporta arricchimento,
perché c’è in compenso, il recupero della centralità
semantica nel corpus del poema stesso. Tre sono sostanzialmente le tematiche attorno alle quali ruota la girandola
contenutistica della poesia sonora e della performance polipoetica,
la lotta e l’opposizione sociale, il filone universale dei grandi
sentimenti e il disagio del vivere disadattato. Per ogni percorso, faremo
qualche nome esemplificativo con un breve commento.
Poesia sonora come strumento di lotta e di opposizione:
Henri Chopin, facendo leva sulle esperienze di una vita avventurosa che l’ha
spinto ad essere prigioniero di guerra in Russia o assoldato alla falange
legionaria, ha sempre impresso ai suoi pezzi una carica eversiva, data
sicuramente dall’eccesso rumorico, ma anche da titoli che evocano
paura, tensione e ribellione. Sarenco ha speso una vita facendo provocazioni, è naturale quindi che
anche il suo lavoro sia ispirato dalla provocazione. Una sua immagine
visiva degli Anni Settanta riproduceva una ragazza che lanciava un sasso
con la scritta licenza poetica, oppure in una piazza mantovana nel giugno
del 1998 aveva radunato un gruppo folkloristico capace di produrre con
la polvere da sparo tali deflagrazioni che la gente aveva a ragione
creduto o al terremoto o all’esplosione di una bomba. Serge Pey è sempre molto politicizzato. Non foss’altro per l’uso
di strumenti poveri, come bastoni, o sonagliere appartenenti agli indios
messicani. Rientra sempre nella sua performance un richiamo alla sensibilizzazione
politica, diciamo che perpetua il credo utopico, già introdotto
a suo tempo dai poeti romantici inglesi, di voler cambiare la società
con la poesia. Nel periodo del dopo Chernobyl, ebbe l’idea di
sviluppare un testo sulle anitre selvatiche che lasciavano la zona inquinata
di Kiev per emigrare ed essere mangiate dalle popolazioni del Nord Africa,
compiendo un’operazione di involontario avvelenamento . Wladyslaw Kazmierczak ama la violenza, anche contro se stesso. Noi lo abbiamo
visto a Budapest, nel settembre del 1998, infrangere una dopo l’altra
una ventina di lastre di vetro trasparente contro la sua testa, al ritmo
della colonna sonora di Pulp Fiction di
Quentin Tarantino. Il fatto che ciò avvenisse mentre lui stesso
era vestito in perfetto gessato nero, capelli impomatati, rendeva molto
bene a quale tipo di violenza volesse fare riferimento. Leticia Ocharàn era più esplicita, gettava barattoli di vernice
rossa contro la immagine dello scoppio della bomba atomica, mentre la
voce ripeteva fino all’ossessione gli stessi fonemi che perdendo
via via di significato divenivano simboli di paura e terrore, (Città
del Messico, 1990). Enzo Berardi e Danilo Diggià (Gruppo Ultrash) usano i lori corpi come
oggetti contundenti, la violenza va verso il pubblico, c’è
lo sfinimento e lo sventramento vocale, perché il loro è
fondamentalmente un inno all’anarchia. Massimo Mori opera in modo più raffinato dei precedenti, mantiene il
linguaggio sempre in sintonia con gli oggetti e il corpo stesso per
rappresentare sottili atmosfere verbo-visive dove emana sempre un grande
senso di libertà, di spazializzazione sia ideologica che idealistica. Giuliano Zosi viene dagli studi musicali, ma quando afferra una parola, quella
parola diviene veicolo privilegiato per esilaranti comunicazioni. Noi
ricordiamo questo procedimento applicato ad una parola chiave come quella
di Chirac, ex presidente della Francia. Il poema al di là delle
sue permutazioni era un atto d’accusa contro le esplosioni nucleari
nell’oceano. Fernando Millán in un teatrino ribollente di gente, nell’agosto
barcellonese del 1999, ha trasformato l’atto performativo in una
lezione frontale sui difetti della società e su come cambiarla.
Jaap Blonk quando imita nel tono e negli atteggiamenti la figura del Ministro
cattivo che non vuole ricevere nessuno, e che non vuole sentir ragione,
rinchiuso nel suo ottuso mondo burocratico, fa della satira politica,
però la voce si prende delle grandi libertà di rivincita
perché nel rumorismo quasi completo si captano soltanto spezzoni
di frase inneggianti sempre alla stupidità del Ministro stesso.
Tomaso Binga adoperando la mano leggera dello stile cabarettistico compie
ironie mimiche, verbali sullo strapotere americano, sullo strapotere
del maschio e sullo strapotere del linguaggio ufficiale. Xavier Sabater fa della denuncia sociale un perno del suo lavoro, famoso è
quel suo pezzo degli Anni Ottanta dove utilizza nomi di multinazionali,
dati come fossero una sequenza sintattica, per cui i nomi assumono di
volta in volta funzioni di soggetto, verbo e complemento. Clemente Padin è la politicizzazione in persona, partendo da posizioni
marxiste, prende come osservatorio il suo continente, l’America
Latina, per riproporre in performance le ingiustizie, le angherie, i
soprusi che quotidianamente avvengono contro i più poveri, gli
indifesi. Un agit-prop callejero.
Poesia sonora come veicolo dei grandi sentimenti:
Laura Elenes, messicana, attraverso un apparato coerentemente polipoetico,
svolgeva il tema della bellezza del corpo femminile, troppe volte represso
se non rinnegato da ingiustificate ingerenze ecclesiastiche. Seiji Shimoda ha il potere di trasmettere le grandi sensazioni ieratiche dello
Zen, dell’assoluto, della calma, del satori. Lo fa con grande
semplicità, senza scomodare dispiegamenti tecnologici, sfrutta
congegni elettronici popolari. A Tokyo, nella primavera di quest’anno,
durante una performance, è andato incerottandosi sulla fronte
due sirene che emettevano il loro lancinante suono, attutito solo in
parte dai costanti giri di nastro che gli avvolgevano il capo.
Brian D. Tripp, un poeta indiano appartenente alla Karuk tribù, un
paio d’ore di macchina a nord di San Francisco, quando performa
i suoi canti, le sue poesie in lingua Karuk, inneggia alla vita, alle
bellezze della natura ma anche al fascino delle erbe da fumare e alla
violenza. Philadelpho Menezes quando inforca vie esistenziali, sa comunicare la sensazione
profonda del vivere. Per esempio in un suo pezzo eseguito al Museo d’Arte
Moderna di San Paolo un paio d’anni fa, ha preso il respiro come
elemento base per relazionarsi al suono accattivante del mare, del vento,
in quel momento, il poeta è l’uomo che respira lentamente
i sapori del mondo. Julien Blaine, grande presenza scenica la sua, lascia sempre una decisa impronta
sull’audience. A noi piace ricordare qui quel poema, eseguito
nella primavera di quest’anno in un centro culturale di Barcellona,
dove commemorava alcuni poeti amici morti negli ultimi tempi, Adriano
Spatola, Patrizia Vicinelli, Franco Beltrametti, Joan Brossa. Ide Hintze fa parlare gli oggetti, li percuote fino a ricavarne la loro voce,
come era successo in un lavoro che gli vedemmo eseguire a Ljubijana
sul finire degli Anni Ottanta, quando su un grande foglio bianco tracciava
a ripetizione la stessa linea di pennarello che andava stratificandosi,
quasi a divenire una tangibile protuberanza. Oltre alla forza della
linea stessa, (nel kanji, il carattere calligrafico giapponese, appunto
una linea è una forza) (2), c’era il dialogo sonoro
tra la punta del pennarello e la carta stessa. Eric Andersen porta sulla scena la quotidiana routine. Per lui vale il detto
che la vera essenza della vita sta nella banalità, da intendersi
come osservazione attenta di quanto avviene, senza tralasciare alcun
dettaglio. Viene così realizzando una messinscena-parodia della
vita stessa con costanti punti di autoironia come in una performance
tenuta a New York a metà degli Anni Ottanta, quando all’ingresso
fece distribuire gialli distintivi recanti la scritta “non sono
stato il primo ad uscire durante una performance di Eric Andersen”. Larry Wendt possedendo il dono della narrazione compie la stessa operazione
del danese, in più si evidenzia una sperimentazione orale supportata
da adeguata strumentazione elettronica. Nella sua San Josè, Bay
Area, lo abbiamo visto eseguire performance narrative di considerevole
lunghezza, ovunque, in un bar messicano, al parco o nello stesso suo
ufficio all’Università, e nessuno può dire che queste
storie siano strampalate perché anche le tre classiche regole
di aristotelica memoria (unità di tempo, luogo e azione) sono
fedelmente rispettate. Anna Homler grazie all’interessamento di Judith Hoffberg ci fece provare
la sua auto-galleria sfrecciando lungo gli affollati boulevard di Los
Angeles, in quell’occasione, l’estate del 1990, il suono-guida
era il canto stereo, amplificato delle balene che avvolgeva lo spettatore-viaggiatore.
Di fatto ci si trovava all’interno di un’auto confortevole,
ma la mente era trascinata nel profondo degli abissi oceanici. Pedro Juan Gutierrez a La Avana non poteva far altro che eseguire una performance
basata sul silenzio, non ovviamente nel senso cagiano, ma un silenzio
frutto di incomprensione e incomunicabilità. Mark Sutherland a Toronto e a Montrèal dove spesso lo abbiamo visto
in azione, è sempre ispirato dalla voglia di comunicare un qualche
brandello di vita vissuta, sia che si tratti del gorgoglìo acquatico
della sua gola in riferimento all’inabissamento del Titanic, sia
che si concentri sulla frase di John Cage, “non ho nulla da dire
e lo sto dicendo”. Christian Uetz, snocciola tutto il campionario esistenziale in stile vocorale,
come è avvenuto in una performance tenuta a Palermo, organizzata
dal musicista Lucio Garau, nel settembre del 1998.
Poesia sonora come sintomo del disagio del vivere alienato:
Philippe Castellin manifesta apertamente attraverso l’ossessione della
ripetizione la vacuità dei significati, un disprezzo scandito
da una oralità numerica su quanto avviene attorno a noi. Takei Yoshimichi crea allestimenti di grande efficacia visiva, si avvale di
sensori che azionano a distanza i volumi dei suoni e le intensità
delle luci in un crescendo dove la voce del tenore Pavarotti viene coperta,
improbabile duetto, con il rumore di una fresa che sfrega contro un
pezzo di ferro, scintille vere contro scintille canore, per un finale
che lo vede puntualmente riverso a pancia all’insù. Maria Teresa Hincapie incarna la quintessenza della rabbia che una donna moderna
accumula vivendo dentro una società fortemente machista
come quella colombiana. Rabbia che lascia abbondantemente fuoriuscire
durante le sue performance, come è accaduto a Osaka quando decise
di far svuotare un intero teatro e di mescolarsi con le prostitute d’alto
rango, tacchi alti, vertiginose, aderenti minigonne nere. Roi Vaara sbeffeggiando gli inni nazionali scarica tutta l’inutilità
e la vanagloria dei nazionalismi. Charles Dreyfus identificandosi con una scimmia che sbuccia banane, seduto
su una sedia legata ad una colonna di legno, a quasi tre metri d’altezza,
lascia intendere inequivocabili messaggi, forse essere scimmia è
meglio? Miroslaw Raijkowski abbandonando completamente il linguaggio, abbandona i
limiti del circostante, entra in uno stato ipnotico, e ci fa entrare
in uno stato ipnotico trascinandoci via nell’al di là,
quasi una perdita di coscienza, uno svenimento. Miguel Angel Cosmos usando due carcasse di computer al posto dei piedi, ed
esibendo la sua nudità totale, vuole farci tornare ad uno stato
primitivo, rifiutando anche la tecnologia stessa, ma i computer messi
ai piedi lo fanno camminare male e in modo goffo, perché quello
non è il loro posto deputato, o forse l’eccesso della tecnologia
ci fa avanzare sbilenchi, o ancora, la tecnologia non può sostituire
parti del corpo? Juan José Dìaz Infante lavorando sul semplice suono prodotto
da una macchina fotografica nell’attimo dello scatto ottiene tanti
e tali risultati sonori da far credere che quello è il vero modulo
comunicativo, non l’immagine scattata, né tanto meno la
lingua, neppure considerata, in effetti quella insistente sequenza di
ronzii metallici sostituisce l’onda ritmica del linguaggio stesso. Bartolomé Ferrando partendo da azioni quotidiane come il rovesciare
il latte, o lo smontare un giocattolo per bambini, riesce ad imprimere
ai suoi atti tutta la drammaturgia che noi esseri umani viviamo, e tutta
la tragedia del vivere quotidiano. Michael Lentz ha il necessario distacco, anche la freddezza esecutiva di chi
si astrae dal contesto, e lascia che sia la crudeltà del linguaggio
a mostrarsi in tutta la sua alienante funzione. Llorenç Barber ha una performance dove mima l’atteggiamento del
conferenziere. Crediamo di non aver mai visto tanta intensità
e tanta passione nel demolire l’atto comunicativo, ma al tempo
stesso dominarne tutte le tecniche alla perfezione. Josè Iges più che descrivere, tratteggia, più che avvolgere,
lascia intravedere, nel suo caso il suono è messo al servizio
di una cosa, di un oggetto che subisce lievi ma percepibili trasformazioni.
Dmitry Bulatov è il ritorno dello Zaum, il richiamo alle origini. Endre Szkarosi pone molta cura nella scelta dei particolari, luci, movimenti,
la musica, gli oggetti e mantiene alto lo scopo performativo, visibile
come l’immagine d’insieme che ci consegna, uno stato di
perenne disadattato, un’incompatibilità tra l’essere
artista e la normalità d’essere artista. Abbiamo ancora
davanti agli occhi, la sua figura da folletto che fa roteare sul suo
capo un bastone simboleggiante l’autoritarismo, calcando molto
sui toni bassi e improvvisamente altissimi della sua potente voce, davanti
ad un pubblico esterrefatto, questo succedeva nell’aula magna
della Biblioteca Centrale di Stoccarda, settembre del 1994 durante l’inaugurazione
di una mostra antologica di Max Bense. Zhu Ming ama l’eccitazione del pericolo, il masochismo del dolore. Non
a caso nella sua Pechino, quando inizia una performance non si sa se
la termina o per l’intervento della polizia o per l’alto
rischio esecutivo. All’inizio si cosparge il corpo nudo di sapone,
poi si infila dentro un pallone bianco opportunamente gonfiato, vi si
accoccola al suo interno, chiudendolo, lasciando solo il filo del microfono
come unico collegamento tra l’interno e l’esterno, cordone
ombelicale elettronico. Luci spente, tanto che il suo esile corpo riluce
come un minuto feto galleggiante nel liquido amniotico. Per minuti e
minuti, si muove all’interno. Si ode il suo respiro farsi pesante,
poi una tosse, sempre più insistente, evidenzia chiari sintomi
di incipiente soffocamento. La performance termina quando, quasi al
limite della resistenza fisica, rompe la plastica del pallone per uscirne
esausto.
Note 1 J. F.Dupuis, op.cit.,
p.90. 2 A.Kerr, op.cit. pp.93-109.
|