“Del teatro barbarico”
La rivoluzione
teatrale del Novecento, eliminando la “pedagogia diffusa” - tipica
dell’Ottocento -, secondo la quale l’attore apprende per contatto,
ha reso impraticabile la formazione dell’attore articolata per materie,
sulla quale tuttavia si attardano le scuole pubbliche e private del terzo
millennio. I motivi dell’impraticabilità sono fondamentalmente
due: primo, se manca
l’ambiente di riferimento
delle famiglie d’arte, le materie non trovano più un’organica integrazione;
secondo, la pratica per materie ignora l’uomo totale, plurale e
indivisibile: separa ciò che invece deve essere considerato in modo
organico e unitario.
Prendo in
considerazione alcune grandi tradizioni del Novecento - quelle rappresentate
dalle “azioni fisiche” di Stanislavskij; dal “mimo
corporeo” di Decroux, con particolare riferimento alla teoria sul tronco;
dall’ ”azione crudele” di Artaud; dal training di Grotowski,
che ha sempre riconosciuto il debito verso Stanislavskij, e di Barba -, non per
proporre una formazione fondata sull’aggregazione di queste tradizioni,
ognuna in sé completa e coerente, e neppure per tentare una generica
quanto impossibile azione di sintesi delle tradizioni stesse, ma per delineare
un orizzonte del fare teatro, attivo
e presente, che abbia come elemento unificante la ricerca delle modalità
di produzione scenica dei linguaggi a matrice fisica. Un ambito che ha
visto impegnati gli artisti e i
ricercatori appena citati, (ma anche Craig, Appia, Mejerchol’d, Schemmer, Fuchs ed altri, che in questa
sede, però, m’interessano molto di meno ) “accomunati - come
precisa De Marinis - dalla esigenza di bandire dall’uso teatrale
(extra-quotidiano ) del corpo umano la facile spontaneità e la narcisistica
e disordinata esibizione delle emozioni, per sottoporre l’espressione
corporea ad un duro lavoro di disciplinamento e di artificializzazione formali
che la depuri dagli elementi contingenti e accidentali, relativi alla vita
passionale dell’individuo, e la metta in grado – così spersonalizzata
– di cogliere l’intima essenza di un fenomeno, di svelare le
verità profonde della vita interiore”.
Perché parto
da alcuni grumi tematici che fanno parte del patrimonio dell’attore del
Novecento – peraltro largamente inutilizzato - per lanciare l’idea
del teatro barbarico riguardante fondamentalmente la scrittura drammaturgica e
di rimbalzo la scrittura scenica nella prospettiva del teatro totale?
Perché l’attore,
elemento cardine, ha la funzione d’incarnare il personaggio:
perché il personaggio è definito e caratterizzato dalle azioni
fisiche compiute nello spazio scenico: perché le azioni fisiche sono
preventivate dal drammaturgo nella fase dell’azione combinatoria di segni
verbali e non verbali per
prefigurare il come della
scrittura scenica. Se il drammaturgo si chiede cosa fa il personaggio, non cosa
dice – nel pieno rispetto del movimento della creazione artistica che va
dal fare al dire, dalla cosa al come, dal materiale all’immateriale, dal particolare al generale -, è evidente che metterà
l’interprete nelle condizioni d’incarnare il personaggio fuori
delle pastoie psicologiche e delle generiche emozioni individuali e di
autogestire i processi vitali in funzione della produzione delle forme
organiche. In altri termini, determinerà i presupposti fondamentali
perché l’attore possa esercitare (per vie interne) la pratica
autopedagogica indicata, opposta e contraria alla produzione dei moduli
espressivi ripetitivi ottenuti (per via esterna) in conformità delle
tecniche di recitazione. Le tecniche sono un vincolo o una liberazione?
Presuppongono la dipendenza dell’interprete dal regista e/o dal
coreografo, ignorano l’importanza decisiva delle facoltà, non
consentono al pensiero di farsi sangue e quindi sono responsabili della
fissità delle forme. Le tecniche sono importanti, se prima si apprendono
e poi si dimenticano.
Credo che la
ricerca teatrale debba prevedere un ritorno ai primordi e che per realizzare
questo nostos sia
necessario tendere ad accamparsi prima della grazia, della musica, della danza, della parola, lavorando nella prospettiva di
quelle geometrie del caos alle quali mi sento di ancorare il rinnovamento dello
spettacolo dal vivo e che ritengo conseguibili soltanto con quel “duro
lavoro di disciplinamento e di artificializzazione formali” cui ho fatto
riferimento.
Ogni volta che
vado a teatro coltivo il presentimento di un’irruzione, la speranza di un
segnale di svolta rispetto al predominio del dato cognitivo e delle tecniche. Mi aspetto che il sangue risponda al
pensiero e che il pensiero risponda al sangue. Auspico che gli artisti marcino
come guerrieri alla ricerca delle forme organiche e attraversino il campo
barbarico dell’atto totale della creazione artistica, utilizzando
l’istinto, il tronco e il soffio leggero dei processi vitali. Nella
maggior parte dei casi le attese tradite sono occupate da cogitazioni insipide,
distinte di sentimenti, descrizioni di fatti e di psicologie, sequele di
estetismi, rituali esangui e prevedibili, processi di formalizzazione senza
fascino, senza mistero, senza valore poetico: proposte così legate alla
realtà contingente da essere bruciate dalla cronaca o così algide
da non avere in sé la forza di donare l’ombra di un’emozione
e ancor meno di durare nel tempo.
Il
corpo come spazio scenico – utilizzato con approcci e risultati diversi,
tanto per fare alcuni esempi, da Yann Marussich ( “Bleu provisoire” ), Lara
Martelli (“For
sale” ) e Marie-Anne
Michel ( Kaiser
les Anges et tenter le Diable ) - chiarisce il compito fondamentale
dell’interprete che consiste nel realizzare, in alternativa ai processi
di astrazione, l’atto totale della creazione artistica, il quale implica
il passaggio dal corpo muto al corpo vivo dell’artista, portatore d’idee
umbratili. Definisce inoltre la consequenzialità dell’atto finale,
che muove oltre la carica deduttiva dei sensi in un luogo senza limiti e senza
forma, riempito di segni, dove la parola tace e dove parlano invece tutte le
cose del mondo interiore, che è infinito. In questo luogo, i punti neri,
i buchi, i semi di una rosa divorata dai bruchi sono capaci di generare una
nuova rosa, cioè una nuova vita, che rivive e rifiorisce, e non si sa
come. Nello spazio senza limiti – com’è senza limiti
l’eros, il desiderio dell’altro -, il pensiero tende a farsi
sangue, portando con sé anche l’odore di quel sangue.
Non
è vero che il movimento del pensiero si manifesti attraverso la parola e il movimento
del desiderio attraverso il
corpo dell’interprete. Perché la parola è corpo. Perché
il teatro è corpo. L’ipotesi di separazione dei due movimenti è avventata e pericolosa, funzionale
al predominio del dato cognitivo sul dato percettivo, foriera della distruzione dell’energia vitale e della eliminazione
del mistero, negatrice della leggerezza del corpo antitetica alla pesantezza
della carne.
Il logos attraversa
le viscere, il ventre, il cuore. Si espande in tutto il corpo per essere spinto
oltre il suo stesso confine, dove la materia invadente rende possibile nel suo
divenire la fuoriuscita della parte nascosta che aspira alla produzione di
senso. L’energia prodotta spinge verso la spazialità degli oggetti
e la produzione di linguaggio estensivo, lasciando sopravvivere la
razionalità necessaria all’autogestione del processo vitale. Ma il corpo è fatto anche di
sudore, sapori, odori, saliva, escrementi, sperma, sangue, ferita, sesso - che
derivano dalle parti che formano il tutto -, costituendosi così come
pluralità di segni, come generatore di tante parole e di nessuna parola.
Il corpo rimanda alla creazione artistica come atto erotico, essendo
l’erotismo - per dirla con Bataille – “l’approvazione
della vita fin dentro la morte” ed essendo l’uomo - per dirla con
Rella - “totalmente sessuato”. “Ma se la sessualità
– per dirla con le parole d’Ildegarde - è ciò che
costituisce l’umano, anche lo spirito è sessuato…fiorisce
nel corpo (in lumbis rationalitas floret) ”.
Il corpo erotico della ricreazione
è libero da ogni condizionamento etico, politico, religioso e
ideologico. Porta con sé il soffio della carezza e la paura del
naufragio, la dolcezza dell’abbraccio e la violenza del sesso, il piacere
e l’orrore sublime della morte. Il corpo erotico non è terra senza
cielo. E’ il ventre della terra che sale verso il cielo appeso al filo
celeste. E’ contenuto e contenitore del viaggio. E’ transito che si
fa esperienza umana ricca di promesse. E’ luogo dell’imprevisto,
dove sfrigola tutto ciò che è buono per comunicare. Negare il
corpo, significa negare la sessualità di ogni sua parte, ignorare la
“carnalità dell’anima”, escludere la
possibilità di sfiorare il dio della selva.
La ragione ha ucciso il corpo, il corpo ha
ucciso l’anima: l’anima non canta più. Nella società
materialistica contemporanea il logos della parola è in grado di dare
una risposta al sapere, ma resta muto di fronte al non-sapere, che è
metà della sapienza e dell’esperienza umana. Se s’ignora la
cultura e la natura duale, l’uomo cessa di essere un individuo plurale e
indivisibile. Se si nega il pensiero del corpo, il piacere diventa edonismo. Se
si trascura la centralità dell’eros, l’opera diventa algida.
Se si lavora sui processi di astrazione e sulle tecniche, si producono forme
morte, che non amano, non possiedono, non coinvolgono lo spettatore. La
“meccanica” della creazione artistica si configura come manovra che crea un’alleanza tra razionale e sensibile.
Se
è vero che non c’è dissolutezza peggiore del pensare,
pensare alla riducibilità dei valori opposti e contrari significa
procurare nell’ambito della scrittura drammaturgica e di rimbalzo della
scrittura scenica un danno ancora più grande: una perdita in termini di
spessore, di fascino e di valore aggiunto poetico. Non c’è errore
più grave del separare il nero dal bianco, il vero dal falso, il buono dal
cattivo. Bulgakov scriveva perché nel suo paese il sì era stato
separato e diviso dal no. Scriveva perché la ragione armata aveva
stabilito che lì c’era la luce e che altrove c’era l’ombra:
aveva decretato che lì c’era il bene, c’era il meglio, da
aggiungere, da affermare coattivamente per essere vincitore sull’altro.
Scriveva perché quell’orrore non aveva limiti.
“La
luce è tenebra quando
è solo luce”.
Le parole di Rella ci mettono in guardia dalla metafisica della luce che,
infettando l’opera, la rende non credibile, e in tempi brevi la condanna
all’oblio. Su questo tema Lukàcs sostiene che la “ragione
decisiva per cui un’opera conserva una efficacia permanente mentre
l’altra invecchia è che l’una coglie gli orientamenti e le
proporzioni essenziali dello sviluppo storico mentre l’altra non vi
riesce”, e lo dice
dalla sponda ideologica che collega la transitorietà dell’arte
alle sorti positive e progressive della storia. Si tratta di una tesi che
suscita dissenso sulla sponda opposta - antideologica, ma non per questo fuori
della storia umana -, dove si sostiene che l’opera possa durare nel
tempo, e parlare al cuore e alla mente degli uomini, soltanto se il valore
universale scaturisce da una trama di opposizioni intime, violente e inconciliabili;
dal partito preso, che nega la neutralità della cultura; dalla
pluralità del linguaggio e dal comportamento poetico dell’autore.
Insomma, da una serie di fattori. L’opera dura nel tempo quando si pone
nel suo divenire “non come un altro mondo – suggerisce Blanchot -,
ma come l’altro di ogni mondo, ciò che è sempre altro dal
mondo”.
La scorporizzazione dell’idea è un
progetto che risale a Plotino e che perdura nel tempo, purtroppo. Basta guardarsi
attorno per accorgersi quanto la cognizione del mondo prevalga sulla percezione
del mondo e come il corpo desacralizzato sia sperperato in nome di false
verità e di false libertà. Sotto l’influenza di
verità codificate, artisti criminali separano il pensiero della mente dal pensiero del corpo, finendo
per radere al suolo la selva primordiale e innalzare sulle sue rovine cattedrali di
vento, dove moda e superficialità gridano vittoria per nascondere la
tragedia delle forme nate morte.
Mai
opporsi al proprio opposto. Dio ha abbandonato il mondo e si è rifugiato
dentro di noi, ma non esiste una teoria o una tecnica che possa insegnarci a
trovarlo in quattro e quattr’otto. L’unica possibilità
risiede nell’abbraccio, che presuppone il possesso di facoltà straordinarie. L’abbraccio è il confronto con mondi strutturati
che non conosciamo e che riconosciamo come altri. Questi mondi entrano in noi e
noi entriamo in questi mondi, trasformandoli nel corpo linguistico e semantico
dell’opera.
Una creazione artistica può prescindere dal diventare? L’opera d’arte esiste nel suo divenire, attraverso il perfezionamento continuo
dell’azione combinatoria dei segni e della distillazione della forma,
fino all’esattezza finale. Il diventare attiene alla dilatazione dell’anima. Da anima
individuale diventa anima del mondo. Diventare pietra, diventare albero,
imparare il linguaggio degli animali – come suggeriscono alcune favole -
non è una punizione, ma una amplificazione dell’anima.
Anche il valore poetico dell’opera è una questione legata
al destino delle cose. Quando si ammala la terra, anche il cielo si ammala. Su
questo dato bisogna concentrare l’esperienza e su questo dato,
soprattutto, bisogna scaricare una sorta di violenza, che non manifesta
direttamente contenuti psichici e immaginari, ma tende a ricreare la
realtà attraverso la combinazione di segni, l’errore nascosto
sotto la cancellatura, la percezione dell’orrore radicato nelle interiora
e nelle interiorità profonde della natura umana, filtrati dal
comportamento poetico dell’artista
I
drammaturghi, come tutti gli esseri umani, si sentono buoni. Hanno buone
idee, buoni sentimenti, buon
senso, buone maniere e buone intenzioni. Ma tutto questo non serve. Non serve
al teatro la civiltà dei teatranti, così come non serve alla
comunità nazionale la civiltà di un paese che ha comunicazioni di
massa senza comunicazione, opere di socializzazione con poca solidarietà
e molte solitudini, sviluppo tecnologico e scientifico che non coincide con un
reale progresso umano. Gli scrittori, volendo cambiare il mondo, massacrano il
teatro, cioè lo impoveriscono.
Di
verità e di civiltà si muore!
Beckett e Shakespeare non sono meno civili dell’ultimo autore
civile di successo. Ben vengano allora i cattivi pensieri e i cattivi
sentimenti. I nostri cattivi pensieri e i nostri cattivi sentimenti. Invece di
tenerli nascosti per paura o per vergogna, mettiamoli in preventivo nelle
nostre scritture drammaturgiche, suffragati dall’orrore e dallo stupore
del disvelamento. Accettiamo la condizione di naufraghi senza sponde e le
difficoltà dei passaggi, delle maree, degli attraversamenti che ne
derivano. Ascoltiamo l’istinto e le pulsioni che, attraverso le azioni
fisiche, producono pensiero. Poniamo al centro dei nostri racconti il disagio e
l’emarginazione sociale, se lo vogliamo, ma non dimentichiamoci che oltre
ai campi barbarici di ciò che è altro da noi esistono i campi barbarici di ciò
che è altro di
noi. Con due vantaggi: una maggiore credibilità e la esclusione del
didatticismo. E’ della nostra natura e della nostra cultura, vergognose e
incivili; è di ciò che sta in odore di eresia; è
nell’ambito del dicibile/indicibile, del visibile/invisibile, del
palpabile/impalpabile che dobbiamo scandagliare, se vogliamo fare qualcosa di
utile per il rinnovamento delle forme teatrali.
Macché! Invece di ricreare la realtà, cerchiamo di
doppiarla. Invece di rappresentare i fatti, li descriviamo. Invece di
disvelarci, ci mascheriamo. Invece di essere, cerchiamo di apparire. Invece di
stimolare, lanciamo messaggi che suonano come ordini. Invece di creare veli,
spieghiamo. Invece di esprimerci, chiacchieriamo. Invece di rimembrare,
ragioniamo. Invece di produrre coscienza critica, facciamo didattica. Invece di
dare forma alla sostanza, produciamo estetismi. Invece di praticare il partito preso nel quadro di
riferimento della irriducibilità degli opposti, ci aggrappiamo
all’assoluto ideologico.
Insomma, o siamo artisti o non siamo artisti. Gli artisti non hanno
niente da insegnare e molto da imparare.
Il
teatro civile - una delle forme di teatro mimetico - con i suoi schemi e
contorni rigidi non consente trasgressioni. Non suscita scandalo. Non produce
mistero. Si nutre di buon senso e
provoca effetti mortali. Volendo edificare, conserva. Volendo creare, distrugge. Volendo cambiare il mondo, lo
conserva, perpetuandone le forme di comunicazione. Inseguendo la luce, crea il
buio. Volendo dire la verità, la nega. Volendo coinvolgere, respinge.
Volendo convincere, non possiede. E per fare questo di chi si serve? Di attori
succubi, adibiti alla pedissequa trasformazione della parola scritta in parola
parlata, perché privi delle abilità necessarie ad esercitare
fattualmente l’autopedagogia come autogestione dei processi vitali. Non
avendo le capacità per competere con la supremazia del regista, perdono
inconsapevolmente la possibilità di essere coautori dello spettacolo dal
vivo.
Bisogna
tornare alle origini. Disconoscere il teatro come un’arte pragmatica,
abbandonare i vincoli che impediscono all’individuo di manifestarsi in
modo totale, concretizzare il nostos nei campi barbarici delle azioni fisiche poste in
posizione di centralità assoluta, perché sono le azioni fisiche -
con il loro implicito carico di nascosto e di misterioso -, a caratterizzare i
personaggi e non il carattere dei personaggi a determinare le azioni
fisiche.
Teoria e
prassi del teatro barbarico non si affidano alle virtù miracolose
dell’inconscio o alle soluzioni epidermiche della ragione, ma
all’operosità di una specie umana assai rara: quella dei
sognatori, dei visionari, dei pazzi luminosi che si sono lasciati il mondo alle
spalle per l’incapacità a stargli dietro. Non sono persone al
singolare, ma al plurale. Non sono alchimisti di forme teatrali o di stilemi
coreografici, ma chimici della pluralità del linguaggio. Uomini che
sanno di dover credere per vedere e non vedere per credere. Uomini che non hanno bisogno del
paraurti del tempo per vedere. Che sono in grado d’immaginare e di
accettare tutto ciò che è nuovo e sconosciuto. Che non
impazziscono senza quel paraurti, ma che impazzirebbero se non lo facessero a
pezzi prima d’intraprendere il viaggio di ritorno con il bagaglio di
alcune consapevolezze effimere: il primo passo è quello che conta; il naufrago e la marea sono
un’unica cosa; la rotta è un continuo divenire che va
continuamente verificato. Si tratta di uomini in possesso di
un’integrità che li tiene lontani dalle mode e che li salva allo
stesso tempo dall’entrare in odore di santità. L’integrità
di uomini che sono in grado di sognare e di progettare l’impossibile,
attribuendogli concretezza nei labirinti di senso. L’integrità di
uomini che sono diventati individui e d’individui che pongono
l’integrità e l’unicità a fondamento della loro condizione
e a completamento delle loro straordinarie facoltà. Lo spettacolo dal
vivo non ha bisogno di drammaturghi, attori, registi o danzatori: ha bisogno di
uomini, plurali e indivisibili. Per diventare uomini bisogna imparare a
disimparare.
Altro che stage di
perfezionamento!
Ci vorrebbero corsi
permanenti di libertà e d’integrità. Questo dovrebbe essere
il progetto per l’università del futuro. Un progetto di formazione
fondata sulla pratica dell’alleggerimento. Per preparare i futuri sognatori, gli uomini
visionari, i pensatori indipendenti bisogna alleggerirli. Occorre aiutarli ad
eliminare vecchie strutture, stratificazioni d’ignoranza, concetti
arrugginiti, idee obsolete, preconcetti, falsi sentimenti, paure immaginarie,
ossequi alla superficie. Occorre aiutarli ad evitare paludi ideologiche,
grammatiche della metafisica, domini irragionevoli della ragione, dipendenze da
antiche e nuove divinità tecnologiche usate come fini e non strumenti della comunicazione. Abbiamo bisogno di uomini liberati
dai legami dell’egoità, interessati a scoprire l’illusione
di agire, d’investigare, senza pretendere di trasformare la contesa in
vittoria. Un’illusione che non ha alcuna valenza morale o ideologica, che
fa sentire l’artista su un piano di eccezionalità umana, nel
preciso momento in cui attraversa le cose con indomabile stupore e pone la
condizione del partito preso alla base del valore etico universale. Allora, quando questo valore si
determina, genera nuove indeterminazioni. Quando fa previsioni, insinua
l’imprevedibile. Quando propone il disvelamento, coglie il misterioso e
l’inatteso.
(Il saggio è stato scritto
per la rivista francese DOC(K)S).