“Del teatro barbarico”
Credo che
la ricerca teatrale debba prevedere un ritorno ai primordi e che per realizzare
questo nostos sia
necessario accamparsi prima della grazia, prima della
bellezza, prima della
musica, prima della danza ,
prima della parola,
lavorando nella prospettiva di quelle geometrie del caos alle quali mi sento di ancorare il
rinnovamento dello spettacolo dal vivo.
Ogni volta che
vado a teatro coltivo il presentimento di un’irruzione, la speranza di un
segnale di svolta, rispetto al predominio del dato cognitivo e delle tecniche,
che tenga conto del patrimonio dell’interprete del Novecento europeo,
ampiamente inutilizzato. Attendo la trasformazione del corpo muto in un corpo
vivo, portatore d’idee umbratili. Mi aspetto che il sangue risponda al
pensiero e che il pensiero risponda al sangue. Auspico che gli artisti marcino
come guerrieri alla ricerca delle forme organiche e attraversino il campo
barbarico dell’atto totale della creazione artistica, utilizzando l’istinto,
il tronco e il soffio leggero dei processi vitali. Nella maggior parte dei
casi, però, le attese tradite sono occupate da cogitazioni insipide,
distinte di sentimenti, descrizioni di fatti e di psicologie, sequele di moduli
espressivi ripetitivi, rituali esangui e prevedibili, processi di
formalizzazione senza fascino, senza mistero, senza valore poetico, proposte
così legate alla realtà contingente da essere bruciate dalla
cronaca o così algide da non avere in sé la forza di donare
l’ombra di un’emozione e tanto meno di durare nel tempo.
Devo tuttavia
ammettere di essere stato fortunato nel corso della stagione teatrale 2003/04,
perché ho avuto la possibilità di vedere ben sette spettacoli
nella direzione di ricerca che prediligo, tutti - nella diversità -, di
straordinaria bellezza ed efficacia: “ Bleu provisoire” di Yann Marussich, “For sale” di Lara Martelli, “ Baiser
les Anges et tenter le Diable”
di Marie-Anne Michel, “Foi”, di Sibi Larbi Cherkaoui, “L’incompatibile” di Marcello Sambati, “The cost of
living” di lloyd
Newson, “Di animali, uomini e dei” di Giorgio Barberio Corsetti.
Il corpo come
spazio scenico – utilizzato, per esempio, da Marussich, Martelli e Michel
con metodiche e risultati diversi, - chiarisce il compito fondamentale
dell’interprete: realizzare
– in alternativa ai processi di astrazione – quell’atto
totale che implica il passaggio a cui ho fatto cenno. Definisce inoltre la
consequenzialità dell’atto finale, che muove oltre la carica
deduttiva dei sensi in un luogo senza limiti e senza forma, riempito di segni,
dove la parola tace e dove parlano invece tutte le cose del mondo interiore,
che è infinito. In questo luogo, i punti neri, i buchi, i semi di una
rosa divorata dai bruchi sono capaci di generare una nuova rosa, cioè
una nuova vita, che rivive e rifiorisce, e non si sa come. Nello spazio senza
limiti – com’è senza limiti l’eros, il desiderio
dell’altro -, il pensiero tende a farsi sangue, portando con sé
anche l’odore di quel sangue.
Non è vero che il
movimento del pensiero si
manifesti attraverso la parola e il movimento del desiderio attraverso il corpo dell’interprete,
perché la parola è corpo, perché il teatro è corpo.
L’ipotesi di separazione dei due movimenti è avventata e pericolosa, funzionale al
prevalere del dato cognitivo sul dato percettivo, foriera della distruzione dell’energia vitale e della eliminazione
del mistero, negatrice della leggerezza del corpo in antitesi alla pesantezza
della carne.
Il logos attraversa le viscere, il ventre, il cuore. Si espande in tutto
il corpo per essere spinto oltre il suo stesso confine, dove la materia
invadente rende possibile nel suo divenire la fuoriuscita della parte nascosta
che aspira alla produzione di senso. L’energia prodotta spinge verso la
spazialità degli oggetti e la produzione di linguaggio estensivo,
lasciando sopravvivere la razionalità necessaria all’autogestione
del processo vitale. Ma il corpo
è fatto anche di sudore, sapori, odori, saliva, escrementi, sperma,
sangue, ferita, sesso - che derivano dalle parti che formano il tutto -,
costituendosi così come pluralità di segni, come generatore di
tante parole e di nessuna parola. Il corpo rimanda alla creazione artistica
come atto erotico, essendo l’erotismo - per dirla con Bataille –
“l’approvazione della vita fin dentro la morte” ed essendo l’uomo - per dirla
con Rella - “totalmente sessuato”. “Ma se la
sessualità –
per dirla con le parole d’Ildegarde - è ciò che
costituisce l’umano, anche lo spirito è sessuato…fiorisce
nel corpo (in lumbis rationalitas floret) ”.
Il corpo erotico della
ricreazione è libero da ogni condizionamento etico, politico, religioso
e ideologico. Porta con sé il soffio della carezza e la paura del
naufragio, la dolcezza dell’abbraccio e la violenza del sesso, il piacere
e l’orrore sublime della morte. Il corpo erotico non è terra senza
cielo. E’ il ventre della terra che sale verso il cielo appeso al filo
celeste. E’ contenuto e contenitore del viaggio. E’ transito che si
fa esperienza umana ricca di promesse. E’ luogo dell’imprevisto,
dove sfrigola tutto ciò che è buono per comunicare. Negare il
corpo, significa negare la sessualità di ogni sua parte, ignorare la
“carnalità dell’anima”, escludere la possibilità di sfiorare
il dio della selva.
La ragione ha
ucciso il corpo, il corpo ha ucciso l’anima: l’anima non canta
più nella società materialistica in cui viviamo. Il logos della
parola è in grado di dare una risposta al sapere, ma resta senza
risposta di fronte al non-sapere, che è metà della sapienza
umana. Di conseguenza, se s’ignora la cultura e la natura duale,
l’uomo cessa di essere un individuo plurale e indivisibile. Se
s’ignora il pensiero del corpo, il piacere diventa edonismo. Se si
trascura la centralità dell’eros, l’opera diventa algida. Se
si lavora sui processi di astrazione e sulle tecniche, si producono opere
così cariche di senso da essere prive di senso e si generano forme morte
che, per loro natura, non amano, non possiedono, non coinvolgono lo spettatore.
La “meccanica” della creazione artistica si configura dunque come
una manovra che crea
un’alleanza tra razionale e sensibile.
Se è vero
che non c’è dissolutezza peggiore del pensare, pensare alla
riducibilità degli opposti – applicata prima alla scrittura drammaturgica
e poi alla scrittura scenica - significa prefigurare una perdita gravissima in
termini di spessore, di fascino e di valore aggiunto poetico. Non
c’è danno più grande del separare il nero dal bianco, il
vero dal falso, il buono dal cattivo. Bulgakov scriveva perché nel suo
paese il sì era stato separato e diviso dal no. Scriveva perché
la ragione armata aveva stabilito che lì c’era la luce e che
altrove c’era l’ombra: aveva decretato che lì c’era il
bene, c’era il meglio, da aggiungere, da affermare coattivamente per
essere vincitore sull’altro. Scriveva perché quell’orrore
non aveva limiti.
“La luce
è tenebra quando
è solo luce”.
Le parole di Rella ci mettono in guardia dalla metafisica della luce che,
infettando l’opera, la rende non credibile e le affida un destino breve.
Su questo tema Lukàcs sostiene che la “ragione decisiva per cui
un’opera conserva una efficacia permanente mentre l’altra invecchia
è che l’una coglie gli orientamenti e le proporzioni essenziali
dello sviluppo storico mentre l’altra non vi riesce”, e lo dice dalla sponda ideologica che collega
la transitorietà dell’arte alle sorti positive e progressive della
storia. Si tratta di una tesi che suscita forte dissenso sulla sponda opposta -
antideologica, ma dentro la storia -, dove si sostiene che l’opera possa
durare nel tempo e parlare al cuore e alla mente degli uomini soltanto se il
valore universale scaturisce da una trama di opposizioni intime e violente,
inconciliabili, e dal partito preso che nega la neutralità della
cultura, e dalla pluralità del linguaggio, e dal comportamento poetico
dell’autore. Insomma, da una serie di fattori. L’opera dura nel
tempo quando si pone nel suo divenire “non come un altro mondo – suggerisce Blanchot -, ma come
l’altro di ogni mondo, ciò che è sempre altro dal mondo
La scorporizzazione
dell’idea è un progetto che risale a Plotino e che
perdura nel tempo, purtroppo. Basta guardarsi attorno per accorgersi quanto la
cognizione del mondo prevalga sulla percezione del mondo e come il corpo
desacralizzato sia sperperato in nome di false verità e di false
libertà. Sotto l’influenza di verità codificate, artisti
criminali separano – come ho accennato - il pensiero della mente dal pensiero del corpo, finendo
per radere al suolo la selva primordiale e innalzare sulle sue rovine cattedrali di
vento, dove moda e superficialità gridano vittoria per nascondere la
tragedia delle forme nate morte.
Mai opporsi al proprio
opposto. Dio ha abbandonato il mondo e si è rifugiato dentro di noi, ma
non esiste una tecnica che possa insegnarci a trovarlo. L’unica
possibilità risiede nell’abbraccio, una metodica che presuppone conoscenze,
abilità e facoltà straordinarie. L’abbraccio è il confronto con mondi strutturati
che non conosciamo e che riconosciamo come altri. Questi mondi entrano in noi e
noi entriamo in quei mondi, trasformandoli nel corpo linguistico e semantico
dell’opera.
Una creazione artistica può prescindere dal diventare? L’opera d’arte esiste nel suo divenire, attraverso il perfezionamento continuo
dell’azione combinatoria dei segni e della distillazione della forma,
fino all’esattezza finale. Il diventare attiene alla dilatazione dell’anima. Da anima
individuale diventa anima del mondo. Diventare pietra, diventare albero,
imparare il linguaggio degli animali – come suggeriscono alcune favole -
non è una punizione, ma una amplificazione dell’anima.
Anche il
valore poetico dell’opera è una questione legata al destino delle
cose. Quando la terra si ammala, il cielo si ammala. Su questo dato bisogna
concentrare l’esperienza e su questo dato, soprattutto, bisogna scaricare
una sorta di violenza, che non manifesta direttamente contenuti psichici e
immaginari, ma tende a ricreare la realtà attraverso la interazione dei
codici espressivi filtrata dal comportamento poetico dell’artista, il
rilevamento dell’errore sotto la cancellatura, il racconto
dell’orrore radicato nelle interiora oltre che
nell’interiorità profonda della natura umana.
Le
tecniche sono un vincolo o una liberazione? Presuppongono la dipendenza
dell’interprete dal regista e/o dal coreografo, suffragano il dominio
della ragione sul movimento del pensiero, non consentono al pensiero di farsi
sangue e sono responsabili della fissità delle forme. Le tecniche sono
importanti, se prima si apprendono e poi si dimenticano. Lo spettacolo dal vivo
nel suo complesso non ha bisogno di drammaturghi, di attori o di danzatori, ha
bisogno di uomini. Per diventare uomini bisogna imparare a disimparare.
Il materialismo e la cognizione delle
disgrazie umane hanno massacrato il teatro, rendendolo esangue, e hanno
distrutto la bellezza. La
civiltà contemporanea è fatta di buone idee separate dalle
cattive idee. E’ fatta di buone maniere, di buon senso, di buoni
sentimenti, di beata e beatificata superficialità, di comunicazioni di
massa senza comunicazione, di socializzazione con poca solidarietà e
molte solitudini, di sviluppo tecnologico e scientifico che non coincide con un
reale progresso umano. Di verità e di civiltà si muore. Ben
vengano allora i cattivi pensieri e i cattivi sentimenti. I nostri cattivi
pensieri e i nostri cattivi sentimenti. Invece di tenerli nascosti per pudore
civile o per vergogna, mettiamoli in preventivo nelle scritture drammaturgiche,
assieme alle percezioni terrificanti e alle sensazioni stupefacenti.
Resuscitiamo gli errori commessi da sotto le cancellature, accettiamo la
condizione del naufrago senza sponde e con essa gli orrori dei passaggi, delle
maree e degli attraversamenti. Ascoltiamo l’istinto e le pulsioni
profonde che, attraverso le azioni fisiche, producono pensiero. Poniamo al
centro dei nostri racconti il disagio e l’emarginazione sociale, ma non
dimentichiamo di attraversare, oltre ai campi barbarici di ciò che
è altro da noi, i
campi barbarici di ciò che è altro di noi, con il vantaggio di essere più credibili
e di non avere atteggiamenti didattici nei confronti dello spettatore,
più accorto di quanto si possa immaginare. E’ della nostra natura
vergognosa e della nostra incivile cultura, di ciò che è
indicibile, che è invisibile, che sta in odore di eresia che dobbiamo
parlare, se vogliamo fare qualcosa di utile per del rinnovamento delle forme
teatrali.
Macché!Invece di ricreare la realtà, cerchiamo di
doppiarla. Invece di rappresentare i fatti, li descriviamo. Invece di
disvelarci, ci mascheriamo. Invece di essere, cerchiamo di apparire. Invece di
stimolare, lanciamo messaggi che suonano come ordini. Invece di nascondere,
spieghiamo. Invece di esprimerci, chiacchieriamo. Invece di rimembrare,
ragioniamo. Invece di produrre coscienza critica, facciamo pedagogia. Invece di
dare forma alla sostanza, facciamo estetismi. Invece di parlare di noi, raccontiamo il male che
sta fuori di noi, perché ci sentiamo molto buoni. Invece di considerare
la diversità delle idee come patrimonio della comunità,
affermiamo la violenza dell’assoluto ideologico. Insomma, o si è
artisti o non si è artisti. Gli artisti non hanno niente da insegnare e
molto da imparare. Gli artisti più affermano il proprio punto di vista,
più compagni di strada incontrano, e più successo hanno. Il
movimento dal particolare al generale, non viceversa.
Il teatro civile, con i suoi schemi e contorni rigidi, non consente
trasgressioni. Non suscita scandalo. Non produce mistero. Si nutre di buon senso. Perciò
è mortale. Volendo edificare, conserva. Volendo creare, distrugge. Volendo cambiare il mondo, lo
conserva, perpetuandone le forme di comunicazione. Volendo doppiare la
realtà, crea veli di superficie. Volendo chiarire, oscura. Volendo
coinvolgere, respinge. Volendo convincere, non possiede.
Bisogna tornare alle origini. Per farlo bisogna disconoscere lo
spettacolo dal vivo come un’arte pragmatica; abbandonare i vincoli che
impediscono all’individuo plurale, indivisibile e selvaggio di
manifestarsi; rendere concreto il nostos nei campi barbarici delle azioni fisiche poste in
centralità assoluta. Sono le azioni fisiche - con il loro implicito
carico di nascosto e di misterioso -, che caratterizzano i personaggi e non il
carattere dei personaggi – quasi completamente scomparsi dai palcoscenici
- a determinare le azioni fisiche. E’ il fare che determina il dire, non
viceversa.
La teoria
e la prassi del teatro barbarico non si affidano alle virtù miracolose
dell’inconscio o alle soluzioni epidermiche della ragione, ma
all’operosità di una specie umana assai rara: quella dei
sognatori, dei visionari, dei pazzi luminosi che si sono lasciati il mondo alle
spalle per la incapacità di stargli dietro. Non sono persone al
singolare, ma al plurale. Non sono alchimisti di forme teatrali o di stilemi
coreografici. Sono chimici della pluralità del linguaggio. Non sono
danzatori, registi o drammaturghi, ma uomini che sanno di dover credere per
vedere e non vedere per credere.
Uomini che non hanno bisogno del paraurti del tempo per vedere. Che sono in grado d’immaginare e
di accettare tutto ciò che è nuovo e sconosciuto. Che non
impazziscono senza quel paraurti, ma che impazzirebbero se non lo facessero a
pezzi prima d’intraprendere i loro viaggi di ritorno con il bagaglio di
alcune consapevolezze effimere: il primo passo è quello che conta; il naufrago e la marea sono
un’unica cosa; la rotta è un continuo divenire che va continuamente
verificato. Si tratta di uomini in possesso di un’integrità che li
tiene lontani dalle mode e che li salva allo stesso tempo dall’entrare in
odore di santità. L’integrità di uomini che sono in grado
di sognare e di progettare l’impossibile, attribuendogli concretezza nei
labirinti di senso. L’integrità di uomini che sono diventati
individui e d’individui che pongono l’integrità e
l’unicità a fondamento della loro condizione e a completamento
delle loro straordinarie facoltà.
Altro che
stage di perfezionamento! Ci vorrebbero corsi permanenti di libertà,
d’integrità, di conoscenza delle inciviltà latenti. Questo
dovrebbe essere il progetto per l’università del futuro. Un
progetto di formazione fondata sulla pratica dell’alleggerimento. Per preparare i futuri sognatori, gli uomini
visionari, i pensatori indipendenti bisogna alleggerirli. Occorre aiutarli ad
eliminare vecchie strutture, stratificazioni d’ignoranza, concetti
arrugginiti, idee obsolete, preconcetti, falsi sentimenti, paure immaginarie,
ossequi alla superficie. Occorre aiutarli ad evitare paludi ideologiche,
grammatiche della metafisica, domini irragionevoli della ragione, dipendenze da
antiche e nuove divinità tecnologiche usate come fini e non strumenti della comunicazione. Abbiamo bisogno di uomini
liberati dai legami dell’egoità, interessati a scoprire
l’illusione di agire, d’investigare, senza pretendere di
trasformare la contesa in vittoria. Un’illusione che non ha alcuna
valenza morale o ideologica, che fa sentire l’artista su un piano di
eccezionalità umana, nel preciso momento in cui attraversa le cose con
indomabile stupore e pone la condizione del partito preso alla base del valore etico universale.
Allora, quando questo valore si determina, genera nuove indeterminazioni. Quando
fa previsioni, insinua l’imprevedibile. Quando propone il disvelamento,
coglie il misterioso e l’inatteso. ( Alfio Petrini ).